di Igor Colombo (foto: Jean-Jacques-François Le Barbier “Una donna spartana dà uno scudo al figlio”)
Il Sessantotto che più che un anno ha rappresentato una stagione ed un radicale cambiamento nella società, una rivoluzione “in interiore homine”: ha segnato l’inizio di quel movimento con protagonista le donne, chiamato femminismo. La famiglia prima di allora aveva una propria gerarchia ed i ruoli tra uomo e donna, tra marito e moglie, erano distinti ed indispensabili entrambi. All’uomo di casa era demandato il compito di provvedere al sostentamento della propria moglie e della prole. Alla donna, che orgogliosamente era al tempo stesso moglie e mamma, spettavano tanti altri compiti e ruoli apparentemente poco importanti ma in realtà estremamente essenziali per tutta la famiglia. Le donne insegnavano l’educazione, l’amore, il sacrificio, la pazienza , l’ordine, tutto questo in una società che si definiva patriarcale ma dove la donna era al centro e protagonista di essa.
Poi arrivò l’epoca moderna, con la nascita del femminismo sessantottino, che mutò prospettive, ambizioni e stili di vita della donna. Si rivendicava l’indipendenza totale dall’uomo. Nel nome dell’emancipazione si è pretesa una nuova forma di rispetto non del ruolo, ma dell’individuo che da donna si trasforma in femmina, rinunciando cosi alle qualità e ruolo naturale di donna e di mamma ed abdicando oltretutto all’aspetto ed allo spirito di femminilità. Teorie e mentalità sostenute attualmente da mediocri araldi che spacciano ed associano a questa emancipazione la condizione di liberà femminile ed esigono il riconoscimento dello status quo attraverso la declinazione al femminile di sostantivi.
Ed a proposito di sostantivi, uno di quelli che per non potrà mai avere declinazione al maschile e che è servita come forma e forza di imporsi alla donna nelle società antiche e classiche, è quello della corsa. Chissà che espressione potrebbe assumere una signora Boldrini di oggi, se venisse a conoscenza che proprio attraverso la competizione sportiva le donne dell’antichità volevano imporre alla società di allora la donna pari all’uomo, non rinunciando però alle qualità naturali di essere mamme e mogli devote. Quando furono istituite le Olimpiadi nell’antica Grecia, erano rigorosamente escluse proprio le donne, non solo dal parteciparvi, ma anche solo di assistere ai giochi. Coloro che trasgredivano tale divieto toccava la macabra punizione di essere gettate dal monte Tipeo, un monte che si trovava proprio lunga la strada per Olimpia. Nell’antica Atene Solone promulgò una legge che imponeva l’obbligo di praticare lo sport a tutti i giovani, esclusi gli schiavi e le donne.
Sparta dal canto suo era decisamente all’opposto; non solo alle donne era concesso di praticare sport al fine di renderle sane per concepire figli forti e robusti, ma erano anche precettate per disputare gare di corsa. All’epoca ad Atene c’era un gran parlare delle donne spartane. Queste venivano ammirate ed al tempo stesso invidiate dalle donne ateniesi, perché belle, con dei corpi scolpiti nelle sinuosi forme e che soprattutto all’interno della loro società ricoprivano un ruolo importantissimo. Non tutte le donne ateniesi nel tempo accettarono questa condizione. Erano sempre più quelle che mosse da autentica passione sportiva volevano anch’esse competere e partecipare a manifestazioni podistiche. Fu cosi che sempre ad Olimpia si organizzarono competizioni femminili chiamate “Heraia” istituite in onore della dea Era e volute da Ippodamia , figlia del re di Pisa (Pisa cittadina greca del Peloponneso) Enomao, per ringraziare la dea del suo felice matrimonio con Pelope. La prima vincitrice di questa competizione fu Clori, figlia di Niobe. Di questi giochi si parlò in tutta la Grecia e divennero manifestazioni fisse organizzate nello stesso anno in cui si svolgevano le Olimpiadi maschili. Le donne che vi partecipavano erano divise per categorie , indossavano un chitone, una tunica cortissima dove la spalla destra era completamente nuda fino al seno ed i capelli sciolti, questo per far risaltare l’aspetto femminile delle partecipanti. Questa tenuta da gare fu anche oggetto di discussione con Platone che considerava tale tenuta indecente.
Un’altra curiosa competizione femminile, riservata solo alle fanciulle nubili, si svolgeva in un piccolo villaggio dell’Attica, a Brauron, distante una ventina di chilometri da Atene. Qui vi era una bizzarra corsa in cui si liberava un’orsa che inseguiva le atlete. La corsa era dedicata alla dea Artemide a cui l’orsa era sacra. Colei che giungeva sana e salva al traguardo era riservato il premio di poter prendere marito. Un po’ come nel mito di Atalanta, la bambina abbandonata dal padre nei boschi perché deluso che il suo figlio non era maschio, ed allevata e cresciuta proprio da un’orsa inviata da Artemide. Atalanta da adulta divenne cacciatrice, guerriera ed amava la corsa in cui era imbattibile. Sfidava tutti i suoi pretendenti: il vincitore l’avrebbe presa in sposa , il perdente condannato a morte. Furono molte le vittime di Atalanta fino a quando un certo Melanione non la sconfisse aiutato della dea Afrodite la quale, lasciò lungo il percorso di gara tre mele d’oro che la stessa Atalanta vedendole si chinò a raccogliere, perdendo quindi tempo e gara e di conseguenza dovette sposare Melanione.
Per rimarcare sempre di più la voglia di lotta delle donne e di essere al pari degli uomini nelle competizioni sportive, vi è un altro curioso aneddoto. Nelle Olimpiadi antiche in Grecia , gli uomini erano obbligati a competere nudi , quale prova di capacità e resistenza degli stessi al sole di agosto. In realtà tale pratica ha origine per un motivo decisamente diverso. Ferenice di Rodi, figlia di Diagora grande, forte e vincente pugile greco, aveva un figlio di nome Pisidoro. Questi era come suo nonno un pugile molto forte ed era allenato da sua mamma Ferenice, la quale in occasione della gara di suo figlio, entrò nello Stadio di Olimpia, la cui presenza come scritto in precedenza era vietata alle donne, coperta da un mantello. Quando si scopri la sua identità ,la pena riservata a colei che trasgrediva era la morte. I greci in realtà non se la sentirono di condannare a morte Ferenice. La stessa fu infatti risparmiata per via del fatto che la sua famiglia, suo padre Diagora e tutti i suoi fratelli, furono campioni olimpici. Secondo quanto anche riportato da Filostrato, autore classico greco che scrisse un trattato sulla ginnastica e sullo sport antico in generale le donne greche furono costrette a nascondere la loro femminilità per gareggiare e ciò fu fatto sempre con grande sofferenza ed imbarazzo, in quanto le stesse avrebbero di buon grado preferito sfoggiare bravura e forza accostandole alle loro forme femminili ed al loro spirito di essere donne a tutti gli effetti. Alla faccia di chi oggi per non nobili motivazioni, anzi del tutto abominevoli, rinuncia al suo sesso biologico per mera mentalità dissolutrice ed anti-naturale ed indentitaria.
La prima donna che nella storia ha saputo comunque imporre la presenza femminile tra gli uomini in una manifestazione sportiva, ironia della sorte è dei nostri tempi e fa la sua storica apparizione proprio nell’anno che ha fatto da prodromo al sessantotto, il 1967. Lei è Kathrine Switzer, la prima donna nella storia a correre in una maratona di soli uomini, quella di Boston del 1967. La Switzer, atleta tedesca nata da genitori americani, si iscrisse a quella corsa con uno strategemma: usò le sue inziali K.S. Swintzer. Passata per uomo le fu assegnato il pettorale numero 261. Il giorno della gara si presentò alla partenza sfoggiando orgogliosamente tutta la sua femminilità , truccata da donna e con il seno in vistosa evidenza sul numero, sostenuta dal suo fidanzato, partecipante pure lui alla maratona. I giudici di gara appena si accorsero di lei tentarono di bloccarla e strapparle la pettorina, ma Kathrine si divincolò e continuò la corsa e terminandola con un ottimo tempo. Era consuetudine nelle gare di corsa di una certa distanza , il divieto di partecipazione delle donne anche nelle Olimpiadi moderne.
Nella prima edizione del 1896 ad Atene , ci fu una donna che si oppose a questo divieto. Era greca e non poteva essere diversamente: si chiamava Stamata Revthi, trentenne e madre di due figli , corse con lo pseudonimo di Melpomene , la musa della tragedia. Scoperta, fu bloccata dai giudici e dagli organizzatori. La stessa non si arrese e decise di correre da sola la distanza di 42 km che separava Maratona da Atene, l’11 aprile 1896. Gli eroici sforzi di questa donna e delle sue antesignane nell’antica Grecia, furono tutti fatti rispettare da Kathrine Switzer, la quale dopo la maratona di Boston non smise di lottare per il riconoscimento dell’uguaglianza femminile nelle competizioni sportive e nel 1972 partecipò alla maratona di New York. Le sue lotte trovarono il giusto epilogo nel 1984 in occasione dei giochi olimpici di Los Angeles, dove per la prima volta ebbe luogo una maratona olimpica femminile, questa grazie agli sforzi ed alle lotte di militanza della Switzer. Il 17 aprile 2017 all’età di settant’anni, Kathrine Switzer partecipò alla sua nona maratona, sempre a Boston e sempre con il numero 261 sul pettorale, lo stesso del 1967. L’eroismo e la caparbietà di vera lotta femminile senza rinunciare alla femminilità, di Kathrine Switzer, somiglia molto alla gloria decantata dagli antichi greci, che si diceva Kleos. Tutta la forza dirompente di Kathrine, quella di Stamata Revthi, fanno il pari con le atlete greche dell’antichità classica, donne e spose.
Una bella lezione questa per chi sbandiera un femminismo che mette antropologicamente contro donna e uomo, crea steccati ideologici ed etici, sovverte la gerarchia naturale della famiglia per finte ed utopiche libertà. Il vero femminismo nell’autentica e naturale bellezza della donna, nella sua essenza spirituale e giuridica di donna, sposa e madre, è greco ed è donna soprattutto. Ha il sapore di lotta in nome della donna stessa che non rinuncia ai suoi ruoli divini per avere i propri diritti.