di Diego Fusaro
Sembra a tutti gli effetti un dejavù. Come al principio del 2020, ricordate? Dapprima l’emergenza appariva lontana, limitata alla sola Cina. Poi all’improvviso ce la trovammo in casa, come un ciclone inatteso. E da lì principiò il nostro Calvario.
Ebbene non è da escludere che presto ci troveremo tutti blindati in casa per decreto legge, nonostante le benedizioni somministrate coattivamente col santissimo siero: quelle che, per inciso, unite all’infame tessera verde, avrebbero dovuto concederci gentilmente e generosamente la libertà. Se nemmeno ora le persone capiranno, allora davvero l’umanità sarà perduta. Lo ripeteremo all’infinito, ed è il tema al centro del nostro libro “Golpe globale”: non c’è emergenza che giustifichi la compressione della libertà. Ciò che è inammissibile nella normalità non può diventare ammissibile nell’emergenza: la libertà e i diritti fondamentali sono intangibili.
La verità non detta perché non dicibile è che l’emergenza rappresenta a tutti gli effetti un preciso metodo di governo messo a frutto dall’ordine neoliberale. Il quale usa l’emergenza per poter far valere quello che abbiamo definito il paradigma securitario: in nome della tutela della sicurezza e della salute messe a repentaglio dall’emergenza, vengono limitate le libertà. Grazie all’emergenza, reale o narrata, l’attenzione dei più si sposta dalla libertà limitata alla sicurezza garantita mediante quella limitazione. E la palese limitazione delle libertà appare giustificata, quando non invisibile, proprio in virtù del funzionamento del paradigma securitario. Per questo motivo, dobbiamo seriamente chiederci a ormai praticamente tre anni da quando il calvario ebbe inizio se sia lo stato d’emergenza a richiedere le misure d’emergenza o se non siano ormai le stesse misure di emergenza a pretendere la continuazione sine die dello stato d’emergenza.
Del resto, le misure di emergenza si giustificano in ragione dell’esistenza dell’emergenza: se venisse meno definitivamente l’emergenza, dovrebbero crollare anch’esse. Chi ci vieta allora, con l’iperbolico dubbio cartesiano, di immaginare che, proprio perché le misure di emergenza debbono persistere, il potere neoliberale continui a produrre, narrare, amplificare emergenze potenzialmente infinite? Il paradigma generale dell’emergenza così può essere compendiato e così lo abbiamo condensato nel già citato libro “Golpe globale”: l’inaccettabile della normalità diviene l’inevitabile dell’emergenza. Detto altrimenti: ciò che in una condizione di normalità i cittadini mai accetterebbero, in una condizione di emergenza essi accettano e magari anche invocano. Volete un esempio concreto? Chi, in una condizione di normalità, avrebbe mai accettato i confimenti domiciliari coatti o le benedizioni obbligate col santissimo siero? L’emergenza ha giust’appunto reso inaggirabile ciò che in una condizione di normalità sarebbe inaccettabile.
Diciamolo ancora più direttamente, senza perifrasi edulcoranti: l’ordine neoliberale non incontra per caso emergenze, superate le quali restaura l’ordine precedente; au contraire, usa le emergenze per poter fare ciò che in loro assenza non riuscirebbe a fare o faticherebbe grandemente a fare. Per questo, l’emergenza non coincide più con una accidentale perturbazione di un ordine stabile: essa deve essere invece intesa come un preciso dispositivo, puoi anche come una arte governamentale, per dirla con il vecchio Foucault. La cosa grave, dopotutto, non è che il potere neoliberale faccia ciò che sta facendo: con ciò per altro rivelando la sua autentica essenza, opposta a ciò che esso dice di sé presentandosi come il regno della libertà di tutti e di ciascuno. La cosa realmente grave è il fatto che i più accettino con disincantata rassegnazione o non in rari casi con ebete euforia l’inaccettabile: anche in ciò è da ravvisarsi il quid proprioum dell’ordine globalcapitalistico, nel produrre l’intollerabile e, a un sol parto, soggetti disposti a tollerarlo.
Insomma, la scena, come si diceva, sembra quella di un clamoroso dejavù, quasi come se scorressero sullo schermo immagini già viste e già vissute sulla nostra pelle. Possibile che i più si ostinino a non capire, a non voler capire? Possibile che i più non riescano a intendere che quella che viene pubblicamente e in forma anodina detta “emergenza” è anche e soprattutto un preciso metodo di governo neoliberale, mediante il quale i gruppi dominanti plutocratici tutelano al meglio i propri interessi di classe avvalendosi della condizione di emergenza? Davvero qualcuno pensa ancora che l’obbligo all’acquisto online tramite e-commerce serva a evitare i contagi e non invece a distruggere quel che resta dei ceti medi e delle piccole imprese locali? Davvero vi è qualcuno di tanto ingenuo da pensare che la didattica a distanza serva a contrastare il diffondersi del virus e non invece a portare a compimento i processi già da tempo in atto di distruzione capitalistica della scuola? Ancora, vi sono esseri dotati di Logos che non riescano a comprendere che il telelavoro non è finalizzato, come pure si dice, a proteggere i lavoratori dal virus bensì a riorganizzare in modo verticistico e tutto a beneficio del capitale il mondo del lavoro?
Hegel diceva che il tempo della crisi è quello in cui massimamente si mostra il bisogno della filosofia, intesa a sua volta come la forza della riconciliazione e del superamento della scissione. D’altro canto, critica e crisi derivano dallo stesso termine Greco, κρίσις, che appunto dice la scissione e il giudizio, la frattura e la riflessione pensante. Ebbene, alla luce di queste considerazioni, possiamo dire che oggi, paradossalmente, viviamo nel tempo della massima crisi e insieme del massimo nascondimento del pensiero critico. Sul pensiero pensante prevale il pensiero pensato: detto altrimenti, sulla capacità di ciascuno di pensare con la propria testa si impone l’omologazione del nuovo ordine mentale elaborato dai padroni del discorso per giustificare i rapporti di forza del nuovo capitalismo globale, che dell’emergenza permanente si avvale ad usum sui.