di Diego Fusaro
In origine, Sanremo era il festival della canzone italiana e nient’altro. Si esibivano cantanti e veniva premiata la canzone ritenuta più bella, quella che avrebbe fatto da colonna sonora per l’intero anno. Protagonisti erano la musica e i cantanti, questa e non altra era la ratio essendi del Festival della canzone italiana. Si tratta, come noto, di un evento destinato a diventare di interesse letteralmente planetario, se è vero, come è vero, che un poco alla volta Sanremo divenne una rassegna seguita come usa dire “in mondovisione”. Era a tutti gli effetti una splendida vetrina della cultura italiana, amata in tutto il mondo non solo per la sua letteratura e per la sua arte rinascimentale ma anche per la musica leggera.
Un poco alla volta, tuttavia, Sanremo venne snaturandosi: e divenne quel che oggi compiutamente è, un avamposto di diffusione del pensiero unico politicamente corretto, vuoi anche un fortilizio della catechesi liberalglobalista. Sotto questo riguardo, Sanremo svolge davvero una funzione preziosissima per i padroni no border del capitale: essendo una manifestazione “leggera”, apparentemente solo dedicata alla spensieratezza e alla musica leggera, la manipolazione ideologica riesce ancora più efficacemente, perché si rivolge tendenzialmente a persone che stanno guardando la televisione semplicemente per rilassarsi e divertirsi e non hanno molto spesso gli “anticorpi” critici necessari per demistificare ciò che vedono apparire sullo schermo. Ecco perché sempre più l’elemento musicale originario è venuto fumando e passando per così dire in secondo piano: certo, ancora oggi, nel 2023, a Sanremo si ascoltano le canzoni in lizza, ma non è più quello il cuore della rassegna. Quasi è divenuta una cornice rispetto a un nucleo che deve essere ravvisato altrove: più precisamente, lo si deve reperire nella ortopedizzazione liberal-atlantista, politicamente ed eroticamente corretta, nichilista e relativista mediante la quale le masse teledipendenti vengono indotte spesso senza saperlo ad aderire al verbo unico della globalizzazione mercatista.
Così in effetti Sanremo è divenuta sostanzialmente una colossale operazione ideologica, una grandiosa macchina della propaganda con cui la civiltà dei mercati si mette in vetrina e celebra sé stessa saturando ogni remoto angolo dell’immaginario. Questo e non altro è ormai il centro fondamentale di Sanremo, o se si preferisce il suo nucleo essenziale. Ecco allora che negli anni abbiamo visto prendere forma, quasi come in una fucina grandiosa di ideologia dominante, performance di artisti che dissacravano il sacro, celebravano l’individualizzazione neoliberale di massa, glorificavano il transessualismo militante e santificavano molti altri punti dirimenti della globalizzazione neoliberale e delle sue superstrutture ideologiche di completamento. Voglio addurre unicamente due esempi, tra i tantissimi disponibili.
Il primo esempio riguarda un artista di nome Achille Lauro, professionista consolidato nella dissacrazione del Sacro sul palco dell’Ariston a Sanremo: ormai da anni, le sue piatte e apparentemente anticonformistiche prestazioni si risolvono in un attacco diretto a ogni figura del sacro, che sia il battesimo o che sia San Francesco. Superfluo mi pare sottolineare come suddette pratiche, apparentemente anticonformistiche, esprimano al meglio e in grado massimo il conformismo della civiltà pantoclasta e teofobica dei mercati: la quale, come ho cercato di chiarire nel mio studio “La fine del Cristianesimo”, ha già da tempo dichiarato guerra alla religione della trascendenza e ogni residua figura del sacro, giacché mira a produrre uno spazio neutro e liscio, senza sacro e senza Dio, nei cui perimetri blindati tutto e tutti circolino come merci disponibili secondo la logica illogica della valorizzazione del valore. Senza esagerazioni, assai più rivoluzionarie rispetto al conformista Achille Lauro sarebbero quattro suore che leggessero e commentassero Tommaso D’Aquino o Bonaventura da Bagnoregio.
L’altro esempio che voglio menzionare riguarda la pratica egemonica della celebrazione permanente del transessuale, innalzato a idolo della civiltà merciforme, a eroe del nuovo ordine erotico di completamento del nuovo ordine mondiale turbocapitalistico. Da Concita Wurst a Drusilla Foer, la kermesse di Sanremo ci ha già da tempo resi avvezzi a questa celebrazione ininterrotta del nuovo ordine erotico. Non si tratta in questa sede di discutere della legittimità del transessualismo, non è di questo che stiamo ora parlando. Si tratta semmai di discutere della esaltazione mediatica permanente del transessualismo, propagandato come valore in sé e per sé, decisamente da preferirsi secondo l’ordine del discorso dominante rispetto alla vecchia, monotona e intrinsecamente patriarcale famiglia basata sulle figure del padre, della madre e della prole.
Come ho cercato di chiarire nel mio studio “Il nuovo ordine erotico”, la globalizzazione neoliberale non può sopportare la persistenza della famiglia, in quanto essa rivela la natura comunitaria dell’essere umano ed è una “radice etica” fondamentale, direbbe Hegel, vale a dire un elemento intrinsecamente non compatibile con una società in cui tutto e tutti diventano merce e nient’altro che merce. Ecco allora che la celebrazione mediatica permanente del transessualismo appare sostanzialmente rivolta contro la famiglia, nel tentativo di veicolare l’idea che rispetto a quest’ultima sarebbe da preferirsi il nuovo modello eroticamente corretto. Il transessuale del resto appare particolarmente compatibile con la globalizzazione neoliberale, poiché è figura del superamento del confine, dello sconfinamento come mi piace chiamarlo. Il transessuale rivela sul proprio corpo la logica stessa del capitale, secondo cui, parafrasando Marx, ogni limite è un ostacolo che deve essere superato.
Tutto questo già basterebbe a mio giudizio a comprendere l’essenza intimamente ideologica e propagandistica del Festival della canzone italiana così come si è venuto definendo negli ultimi anni. Quest’anno tuttavia vi è un elemento aggiuntivo non trascurabile; un elemento che mi permette di dire che il livello di propaganda e di ideologia raggiunto supera indiscutibilmente ogni altra edizione del Festival. Alludo naturalmente alla presenza, poi revocata, del guitto Zelensky, attore Nato, prodotto in vitro a Washington se non direttamente a Hollywood. Come sapete, il guitto era stato annunciato da Bruno Vespa qualche settimana dietro come ospite speciale per l’ultima serata del Festival: nel cui contesto avrebbe dovuto fare la sua epifania serotina in collegamento video, probabilmente per ringraziare l’Italia del cadaverico supporto alla guerra d’Ucraina e naturalmente per chiedere maggiore impegno in relazione all’invio di armi e magari anche di uomini in questa folle guerra, che è poi la guerra che l’imperialismo di Washington sta conducendo contro la Russia. Già, perché questa non è la guerra della Russia contro l’Ucraina, come la presentano i padroni della coscienza e i monopolisti del discorso pubblico. Questa è semmai la guerra che l’occidente a trazione atlantista, con l’Europa nel solito ruolo di colonia senza dignità, sta conducendo contro la Russia di Putin: Russia la cui colpa inespiabile sta nel non sottomettersi all’imperialismo a stelle e strisce, nel non piegarsi alla cancel culture promossa da Washington e dal non mutarsi supinamente in semplice colonia al guinzaglio del Leviatano talassocratico washingtoniano.
Ebbene, si può immaginare un’operazione più propagandistica rispetto all’invio del guitto dei guitti a Sanremo? Per inciso, il guitto non è se non un attore NATO, un fantoccio manovrato da Washington in funzione antirussa: per riprendere la felice espressione del compianto Giulietto Chiesa, Washington sta utilizzando l’Ucraina come bastone contro la Russia di Putin. Proprio come sempre più utilizzerà Taiwan come bastone contro la Cina. Il guitto, per parte sua, non sta lottando per il suo popolo e per la sua patria, come proditoriamente vanno ripetendo i professionisti dell’informazione. Au contraire, il guitto sta spietatamente sacrificando la sua patria e il suo popolo sull’altare dell’interesse dell’imperialismo della NATO e di Washington.
Vi è comunque un aspetto positivo in questa vicenda altrimenti assai triste e deprimente. All’annuncio della presenza del guitto a Sanremo, sia pure solo in collegamento video, hanno preso forma in tutta Italia proteste e dissensi. Proteste e dissensi che si sono manifestati pacificamente sotto le sedi della RAI in tutta Italia e poi anche, naturalmente, nella sede stessa del Festival, a Sanremo. Ciò mi pare un aspetto davvero degno di nota, che ci segnala che non tutto è perduto e che ancora si danno reali possibilità di resistenza rispetto all’invasività ubiquitaria ideologica dell’ordine neoliberale. Il fabula docet mi pare essere in fondo il seguente: il potere neoliberale si ferma solo se incontra resistenza dal basso, cioè solo se ci adoperiamo insieme in modo pacifico e risoluto per fermarlo. Come appunto è accaduto a Sanremo, ove le proteste crescenti hanno indotto la regia del Festival a disdire l’invito rivolto precedentemente al guitto. Certo, è stato egualmente letto un foglio nel quale il guitto ha fatto le sue surreali comunicazioni, secondo l’apoteosi della propaganda nell’accezione prima chiarita. E tuttavia all’improvviso strambata, il cambio di direzione subitaneo, sono spie che ci segnalano quanto dicevo poc’anzi: dalla nostra capacità di resistere al potere dipenderà la possibilità reale di fermare l’avanzata stessa del potere.
Questa in fondo è una acquisizione importante, che ci consegna una responsabilità non trascurabile: sta a noi e a noi soltanto resistere a un potere che, senza resistenza, si prenderebbe tutto.