di Gloria Callarelli
I recenti dati contano nel periodo pre covid 15mila persone morte in un anno a causa delle infezioni sanitarie. Oggi i casi arrivano a circa 100mila. Entro il 2050, dicono le stime, saranno addirittura 450mila le persone che moriranno per infezione. A dare l’allarme comitati ed enti, tra cui la società nazionale degli infermieri specialisti del rischio infettivo, ma soprattutto gli stessi familiari e pazienti che sempre di più si accorgono di negligenze e malasanità e rischiano, all’ingresso in ospedale, di contrarre qualche infezione.
I problemi di una situazione siffatta sono molteplici: si va dalla mancanza di adeguata formazione del personale, al monopolio di coop spesso intenzionate più a risparmiare, o guadagnare, che non a offrire adeguati servizi. Ogni ospedale ha le sue cooperative che gestiscono le pulizie: il personale assunto, però, spesso e volentieri non è sufficiente a coprire i turni lavorativi o non ha gli strumenti adeguati per riuscire in una corretta sanificazione.
Spiega l’imprenditore del settore Stefano Alessandri : “Il problema vero è che mancano i controlli. Se non ci sono, il business delle cooperative e imprese di pulizia prolifera. Si tratta, alla fine, di una pura questione di affari: ottenere un appalto nel settore è praticamente impossibile senza conoscenze e riconoscimento di parte degli utili.”
In questo business la mancanza di competenze poi fa il resto: “Oggi qualunque impresa di pulizia che pulisce gli uffici o le case – aggiunge Alessandri – può tranquillamente accedere come fornitore di servizi di qualunque genere, incluso le strutture sanitarie: è sufficiente che nell’azienda si collabori con un direttore (anche fittizio), che dietro un compenso accetti la carica, ed è fatta. Invece per ambienti così sensibili come le strutture sanitarie, occorrerebbe che si potesse accedere solo attraverso una licenza rilasciata ad aziende qualificate che offrano garanzie totali per tutto quello che concerne la sicurezza dei prodotti e la metodologia di lavoro”.
Ci racconta un’ex operatrice di un noto ospedale del Nord Italia che preferisce restare anonima: “Il mio contratto prevedeva 25 ore settimanali con uno stipendio da 750 euro. Era richiesta in quattro ore la pulizia di quattro sale operatorie compreso il blocco operatorio che era formato da magazzini, sale operatorie, sala risveglio, macchinari, cucina, bagni, lavanderie. Sale operatorie che per motivi di tempo ovviamente venivano pulite grossolanamente: gli stipendi da fame, gli orari di lavoro assurdi, spesso con richieste di straordinari non retribuiti. Difficile riuscire a ottenere una buona resa dal personale esiguo, praticamente impossibile sanificare completamente. Così, se da un lato le direzioni ospedaliere, magari, sollecitano la presenza di più dipendenti, dall’altro spesso sono le coop a decidere che una persona riesce tranquillamente a fare il lavoro che spetterebbe a due o tre”. Non bastasse: il più delle volte il personale impiegato è straniero, e questo fa sì che non solo lo stipendio non rappresenti un problema, perché la persona pur di lavorare si accontenta del salario minimo, ma anche che sia difficile una corretta comprensione del concetto di sanificazione rispetto a quello di pulizia, essendo carenti, appunto, anche i corsi di formazione.
In molte strutture la corretta sanificazione è programmata attraverso l’ozono, ma le tempistiche utili per completare il ciclo non sono quasi mai sostenibili dai nosocomi: per arieggiare i locali, infatti, ci vogliono dalle 24 alle 48 ore. Capirete che in una sala operatoria, che deve essere usata con frequenza, rispettare questa tempistica diventa impossibile.
Lo stesso protocollo per l’ingresso all’interno delle aree delicate è naturalmente rigido. Ma anche qui nascono i problemi: il viavai è quotidiano e lo stesso personale sanitario, spesso e volentieri, per limiti di tempo, o peggio, negligenza, incide, con comportamenti errati, sulla già provata questione “pulizia”.
“I protocolli –spiega l’ex operatrice- prevedono tute mediche e scarpe apposite che si trovano nel blocco operatorio accuratamente lavate e sterilizzate e chi dall’esterno entra nel blocco operatorio non necessariamente indossa gli indumenti appositi ma ha l’obbligo di indossare copriscarpe, mascherina, cuffia, camice e se occorre guanti; il tutto usa e getta. Secondo le testimonianze di molti operatori del settore non è raro vedere usare una sola pezza per sanificare le stanze di rianimazione oppure personale medico e sanitario provenire dal blocco operatorio vestiti con gli appositi indumenti che non cambiano, girando così tra i reparti o a addirittura andando a prendere il caffè con gli stessi vestiti. Regola vorrebbe che chi lavora in quegli ambienti debba vestirsi e spogliarsi nelle stanze dedicate. Anche il cambio dei guanti non viene effettuato con regolarità, così come bisognerebbe prestare maggiore attenzione alla disinfezione di oggetti a contatto con il sangue che è il maggiore veicolatore di virus e batteri”.
Alessandri ci fa sapere che modi per migliorare ci sono: “Un sistema elaborato dalla mia azienda, ad esempio, prevede una base di Perossido di idrogeno combinata con prodotti di nanotecnologia che consente di garantire la decontaminazione e la disinfezione al 99,99% di qualunque agente patogeno. Allo stesso tempo può perdurare negli ambienti trattati per almeno due settimane. Inoltre non contiene sostanze chimiche che invece sono presenti in altri prodotti come, per esempio, candeggina e ammoniaca. Terminata la sua azione, le microparticelle di perossido di idrogeno e di altri componenti si trasformano in ossigeno. Quindi, se utilizzata nel modo corretto, è una sostanza non tossica e non cancerogena: né per gli operatori che effettuano la sanificazione, né per tutte le altre persone. Tanto è vero che può essere erogato in presenza di chiunque”.
Il problema, però, è sempre lì: il business e il dio denaro valgono molto di più, sembra, delle vite da salvare.