di Simone D’Aurelio

Nel Vangelo di Matteo leggiamo come Cristo pone un bambino in mezzo ai discepoli, e come ben sappiamo arrivano le seguenti parole: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt, 18-3). Questa massima non è solo un insegnamento cattolico, ma è anche una strada, un metodo filosofico, valido per chiunque cerca Dio.

Questi versi, sempre molto discussi, aprono a moltissime interpretazioni; il rischio però è di non comprendere a fondo il grande messaggio che è valido per tutti. Se infatti analizziamo quelle parole pensiamo subito alla tenerezza dell’infante, eppure c’è molto di più: il bambino è dipendente dal padre, lo riconosce ed è in continua relazione con lui. L’esempio quindi non si riferisce al voler vivere in un mondo fatato tra i capricci, tipici della tenera età ma piuttosto il Rabbì ci dice che si entra nel regno dei cieli se si riconosce la Verità e il Soggetto che si cela in essa.

Il bambino inoltre è colui che lega le sue azioni con quella del famigliare, non è il self-made children solipsista di stampo neoliberale, distaccato in tutto e per tutto da qualsiasi etica, tradizione, religiosità e filosofia. Non crea pseudo verità, ma riconosce che la Verità lo precede, e si fa addomesticare da essa, così come riconosce l’Essere alla base, anziché l’io fondamento primo e ultimo dell’esistenza.

I bambini inoltre crescono nel Padre, in una forte relazione io-tu, non sono anarchici, ma c’è ancora di più: “Come dobbiamo intendere questo privilegio ontologico dell’infanzia insegnato dal rabbi? Che cosa significa? A noi pare che come sempre, per ben intenderlo, sia necessario rifarci alla prospettiva biblica della creazione. Il fanciullo è un essere appena creato da Dio, non ancora invecchiato, non ancora guastato nè deteriorato. I suoi istinti sono ancora potenti. Il suo senso della verità e della giustizia non è ancora adulterato. Egli non ha ancora ceduto e non si è ancora compromesso. Non si è ancora arreso. Non è ancora stanco della vita. Non è ancora schiacciato da quella invincibile tristezza che opprime certi adulti. Egli è ancora vicino alla fonte e più di chiunque altro è idoneo a comprendere l’insegnamento che viene dalla fonte dell’essere. […] Il bambino è una freschissima creazione che esce dalle mani del Creatore e che non ha ancora avuto il tempo di guastarsi.” (1), il bambino infatti è teso all’ascolto, si riconosce come una tavola su cui c’è ancora bisogno di scrivere, è aperto agli insegnamento, e non è chiuso in sé e nella sua superbia, non si barrica dietro a dei titoli universitari, egli è aperto alla novità, alla scoperta.

Il bambino inoltre riconosce che ha ricevuto la vita, un’educazione, non è lui stesso a fare le regole della reale, piuttosto apprende i regolamenti mediante lo studio e l’esperienza. Egli ammette a livello filosofico che è presente qualcosa che lo precede e questo se lo interpretiamo è molto interessante, perché tutto ciò porta a farci vedere la vita come un dono divino da far fiorire (parabola del seminatore) e non una nostra proprietà.

Inoltre sulla stessa scia possiamo vedere come  nel bambino c’è la voglia di confrontarsi sempre con il padre, specialmente nei momenti più bui dove corriamo da lui piangendo (brano del figliol prodigo), ed è sempre il figlio che in questa ottica vive la sua esistenza con umiltà e non brama di essere il primo (risposta a Giacomo e Giovanni) e la gloria (parabola dei primi posti). Il bambino punta a vivere il dono ricevuto in comunione e in relazione tra lui, la famiglia e il Padre, e da qui scatta anche la dinamica terrena che è riflesso di quella celeste, con i figli e la propria moglie e gli altri fedeli, ma il discorso sull’infante  si coniuga anche con il suo discorso che riguarda la nostra montagna, chi parla a “questo monte”, quello del cuore arriva a vivere, questa montagna è quella che ci  impedisce il pieno compimento della relazione tra noi e Dio, tra noi e l’Essere nella storia delle religioni, che non ci fa arrivare subito a scorgere il volto del Padre che cerchiamo fin da bambini nel nostro cuore (da cui deriva la  nostra inquietudine radicale).

(1) L’insegnamento di Jeshua di Nazaret, Claude Tresmontant, Edizioni Paoline, 1971, Pag. 103

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