di Nicola Trisciuoglio
Riflessioni a margine di un verdetto. Di solito la sconfitta nell’arena giudiziaria che è l’aula di un Tribunale o di una Corte appartiene all’imputato. L’Avvocato ha il privilegio di esercitare un’arte che non deve garantire null’altro se non la onesta qualità della sua opera. Nella morale comune di una società decadente come quella che viviamo l’Avvocato è indenne – per scelta o per legge – da ogni coinvolgimento umano. È l’obbrobrio della elaborazione della così detta “difesa tecnica” cui esso è tenuto… che di per sé esclude, finanche per “raccomandazione” deontologica (sic!) ogni implicazione emotiva.
La Mistica della Toga – moto dell’anima e dello spirito che regge l’arte della difesa – non può essere “costretta” dalla cinica insensibilità delle norme. Essa rifugge continuatamente alle “raccomandazioni” ed ai precetti che vorrebbero incatenarla.
La capacità dell’emozione trasborda ineffabilmente il limite della difesa tecnica e coinvolge il difensore fino a renderlo interprete reale delle sofferenze intime dell’imputato, a torto o a ragione, e oltre la innocenza o la colpevolezza di questi.
È così profonda talvolta questa immedesimazione che dopo un verdetto di condanna l’Avvocato percepisce intimamente l’immensità della medesima indicibile sofferenza del condannato.
La Giustizia coinvolge e stringe a sé verità, libertà, dignità umana, rispetto tra uomo e uomo che, al fine, sono le emozioni che dovrebbero motivare la difesa dell’imputato e modulare le decisioni dei Giudici, così che essa divenga un mistero impenetrabile, ma infallibile come la transustanziazione che avviene sull’altare.
Nel processo della modernità deprivato di umanità e di emozioni sbarrate dall’obbligatorietà del tecnicismo la Giustizia diviene un ideale irrealizzabile, quando anche i Giudici, interpreti della decisione ultima, sono, per legge, costretti a deprivarsi di umanità e di emozioni e ad agire sulla base dell’astrattezza del diritto perché vinti dalle logiche del potere. E così si finisce per percepire – giustamente o ingiustamente quanto inevitabilmente – “i giudici” come “burocrati del Male”… onesti ed intelligenti quanto gli aguzzini erano buoni padri di famiglia. In questa imposta dicotomia “astrattezza-inumanità” del Giudice – voluta dalle leggi della decadenza – si compie il sacrificio e il martirio della Toga ultima trincea di resistenza all’omologazione imposta dalla esasperazione del tecnicismo che si spinge – ultimo sfregio al nero manto della sacra sopravveste – alla indecente virtualizzazione della funzione del difensore.
Lacerato dalla ricerca della Giustizia e dall’Umanità cui essa dovrebbe essere sottesa, l’Avvocato finisce per ritrovarsi in un deserto di solitudine, ed ineluttabilmente la ruota del destino della sconfitta lo prostra fino alla follia dell’interrogarsi del senso della sua arte oramai smarrita. Ed è questa una pena nella pena propria dell’imputato. 
Una pena orribile… che eternamente si perpetua ad ogni “alba” ed ogni “tramonto” di un processo.
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