di Luigi Cortese

“Il salario minimo potrebbe non essere soluzione efficace. Perché in Italia abbiamo un’altissima percentuale di lavoratori coperti da contratti nazionali che prevedono tutti anche una retribuzione minima. Se io decidessi di stabilire una cifra minima oraria di retribuzione per tutti che inevitabilmente dovrà stare nel mezzo mi troverei con un salario minimo legale che in molti casi potrebbe essere più basso dei minimi contrattuali. Rischiamo il paradosso di un salario sostitutivo e non integrativo peggiorando il salario di molte più persone di quelle a cui invece lo migliorerebbe”, con queste parole, pur troppo semplicistiche, Giorgia Meloni ha cercato di spiegare la sua posizione su temi sensibili come il salario minimo, facendo intendere di non conoscere la proposta presentata. Ora resta da capire se la premier non avesse letto la proposta oppure fingeva di non sapere.

La proposta delle opposizioni di luglio recita precisamente: “Per ‘retribuzione complessiva sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato’ si intende il trattamento economico complessivo, comprensivo del trattamento economico minimo, degli scatti di anzianità, delle mensilità aggiuntive e delle indennità contrattuali fisse e continuative dovute in relazione all’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa, non inferiore, ferme restando le pattuizioni di miglior favore, a quello previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) in vigore per il settore in cui il datore di lavoro opera e svolge effettivamente la sua attività, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Il trattamento economico minimo orario stabilito dal Ccnl, non può comunque essere inferiore a 9 euro lordi”. In poche parole, eludendo il politichese, la proposta demanda ai, cosiddetti, contratti nazionali (CCNL) la fissazione dei minimi contrattuali, lasciando così l’intervento del “salario minimo legale” come riparo e non come partenza.

Dal salario minimo passiamo al Reddito di Cittadinanza. Tutti sappiamo che il Governo è intervenuto con una mannaia per eliminare il “sussidio”, certamente carente di alcune norme che potessero permettere un maggior controllo, ma che comunque in un paese come l’Italia dove, in alcune zone, le paghe sono alla soglia dello sfruttamento, poteva essere un modo per controllare ed intervenire nel far emergere situazione palesemente non legali. La premier nelle sue precisazioni sul reddito ha detto: “Sul reddito di cittadinanza ho sentito molte polemiche e tantissime falsità. Primo: non perdono il reddito le persone disabili e non lo perdono gli over 60 come è stato scritto. Non lo perde chi ha figli minori a carico, neanche chi è in particolari condizioni di fragilità.” La piccata precisazione mostra come su questo argomento ci sia una situazione di insofferenza abbastanza accentuata, e che il governo si trova in una situazione di disagio. I dati sciorinati dalla Meloni sono palesemente errati, l’Inps a luglio ha inviato il “famigerato” sms a 169 mila nuclei, e conta di inviarlo ad altri 80 mila nel mese di agosto. Ma il dato più preoccupante è quello emerso dall’’Ufficio parlamentare di Bilancio, che a giugno stimava in 553 mila i nuclei che rimarranno senza tutela.

Per chiudere in bellezza. Ho volutamente lasciato alla fine l’ultima perla della premier, che ha rispolverato un vecchio must del fu’ Cavaliere: “Da luglio a settembre si stimano nuovi 1,5 milioni di posti di lavoro quindi ci sono buone possibilità per questi ‘occupabili ’ di trovare lavoro”. E dopo questa vorrei ricordare a Giorgia Meloni che al suo amico, e predecessore, questa affermazione non portò troppa fortuna, ma soprattutto che a fruire del Reddito di Cittadinanza sono tantissimi lavoratori dequalificati, ma che si è persa un dato importante: in termini di ore lavorate i dati sull’occupazione sono gli stessi del 2019.

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