di Arturo Buzzat

La prima cosa che ho pensato riordinando le mie prime ricerche su Thomas Sankara (erano finalizzate alla realizzazione di un libro che raccontava di un intervento di cooperazione in Burkina Faso) è stata: questo è l’uomo antiglobalizzazione per eccellenza.

Lì per lì pensavo di esagerare con il mio giudizio, ritenuto frutto di un approccio ancora sommario al personaggio e alla sua storia. Poi, però, a mano a mano che lo scoprivo, ho capito che le cose stavano veramente così. Perché Sankara era ben cosciente del sistema che oggi chiamiamo globalizzazione, di quel sistema che, ci piaccia o no, permette a pochi di controllare quasi tutto.

E in quel tempo lontano, il 15 ottobre 1987, fu probabilmente assassinato proprio perché alla globalizzazione, nel nome dell’Africa, si opponeva. Accadde pochi mesi dopo il celebre discorso alla conferenza di Addis Abeba per la cancellazione del debito del terzo mondo. “Se il Burkina Faso resterà solo in questa richiesta – disse – io l’anno prossimo non sarò più qui a questa conferenza”. Nella stessa conferenza aveva invocato anche la via lungo la quale procedere per non essere stritolati tutti dentro un unico grande surrogato: protesta non-violenta, aveva chiesto, altrimenti, spiegava, “ci elimineranno fisicamente”.

Lui, fisicamente lo hanno eliminato, mettendolo a tacere come uomo e, per lungo tempo, tenendolo nascosto alla storia e al mondo. Il Capitan, però, è stato, anche dopo la morte, più forte di loro. Perché di lui non sono riusciti mai a dimostrare, come avrebbero voluto, il tradimento della vocazione non-violenta della sua missione politica: liberare l’Africa  dalla schiavitù del neo-colonialismo finanziario. In un mondo sbilanciato tra nord ricco e sud povero, Sankara si oppose all’egoismo delle multinazionali, del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, alle guerre e al saccheggio delle risorse naturali del continente africano. Fu il primo a proporre di non pagare il debito estero, a indicare nel disarmo l’unica via per la pace, a esigere la liberazione di Nelson Mandela e l’abolizione dell’apartheid, a chiedere la fine della tutela neocoloniale francese.

“Noi stiamo combattendo il sistema che consente a un pugno di uomini sulla terra di dirigere tutta l’umanità”, dichiarava Sankara, che cercò di risollevare il proprio paese da una situazione desolante: mortalità infantile del 187 per mille, analfabetismo al 98%, vita media di poco più di 40 anni, un medico ogni 50.000 abitanti. Dopo quattro anni indimenticabili, il 15 ottobre 1987, Sankara venne ucciso.

A ordire la congiura accusa il comitato internazionale che chiede giustizia (almeno postuma) per lui furono gli organismi finanziari internazionali, la Francia, il Sudafrica, le élite africane, mentre ad armare la mano degli assassini «fu Blaise Compaoré, che dopo la morte del Capitan del Burkina divenne presidente». Movente dell’omicidio: andava interrotto il sogno di un popolo e di un uomo che avevano osato inventare l’avvenire, di porre fine al ricatto e all’ipocrisia dell’Occidente, “voltando le spalle a modelli che in tanti hanno cercato di venderci per anni”.

Ai politici di oggi Sankara ha lasciato un messaggio chiaro e forte: “Non possiamo essere i dirigenti ricchi di un paese povero e per mettere in pratica le sue parole si adoperava, lui per primo, perché ogni giorno ci fosse almeno un povero di meno. A chi gli domandava da quali convinzioni derivasse il suo pensare, candidamente, spiegava che “senza una trasformazione qualitativa di chi è chiamato ad essere artefice della rivoluzione è praticamente impossibile creare una società nuova priva di corruzione, furto, menzogna, e individualismo. Dobbiamo sforzarci di far coincidere i nostri atti con le nostre parole”. Un’eredità, oggi, attualissima.

 

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