di Gloria Callarelli
Tu chiamale se vuoi…emozioni. Questa mattina, aprendo gli occhi, mi è venuto in mente il motivo della canzone “Comunque bella”. E solo dopo, guardando il calendario, mi sono venuti i brividi. Ricorre oggi, infatti, 9 settembre, l’anniversario della morte del grande artista Lucio Battisti. Sì proprio lui, il cantautore di quella meravigliosa canzone. Impossibile, dunque, non scrivere di lui e, ragionando sulla sua vita, non scriverne in modo particolare.
Battisti fu un cantautore inimitabile: decine di milioni di dischi (ancora oggi) venduti, una discografia ricca e senza tempo. E poi quel ritiro dalle scene avvenuto nel pieno del suo successo, gli anni Settanta, fino alla morte del 1998 consumatasi nella più totale riservatezza. Ma perchè Battisti lasciò così precocemente il palcoscenico? Cosa lo spinse ad abbandonare i riflettori e a sparire letteralmente dalle scene, protetto e nascosto in modo quasi maniacale anche dalla sua stessa famiglia?
Forse non lo sapremo mai. Ma, scavando nella sua storia, gli indizi sono rivelatori. Pensiamo soprattutto all’appartenenza politica dell’artista, oggetto negli ultimi anni di continui botta e risposta. Battisti era fascista? Il verso “Planando sopra boschi di braccia tese” della ‘Collina dei ciliegi’ oppure “O mare nero, mare nero” della ‘Canzone del sole’, come così “e la fiamma si alza ancora dentro me” di ‘Vendo casa’ appaiono emblematici. Ma, se è vero che l’autore della maggioranza dei testi fu Mogol, l’obiezione che si può fare è che l’ultima parola spettava certamente al cantante, che, per altro, poteva benissimo suggerire (e lo faceva) aggiustamenti ai testi in questione. Di sicuro c’è che non cantava testi appartenenti all’area di sinistra, da cui stava distante, e questo è un altro indizio. Altra questione ancora il significato di certi brani: “Un’avventura” così come “Il mio canto libero” risultano profetici. Da una parte l’idea dell’amore per sempre, di un’unione solida (“fino a quando gli occhi miei avran luce per guardare gli occhi tuoi”) che si traduce naturalmente nell’idea del matrimonio. Un testo che vide la luce negli stessi mesi in cui si parlava di divorzio. Di più: “Il mio canto libero” può essere interpretato come il grido anticonformista di chi vuole fuggire un futuro segnato dall’appiattimento alla cultura e alla società schiavizzante che stava pericolosamente prendendo piede in quegli anni, accantonando quella storia e quelle tradizioni che dovevano per forza essere annullate. Una profezia. E poi la presenza di Dio nelle canzoni e quel look, così “di destra”.
Battisti era fascista dunque? Paolo Signorelli lo descrive come un giovane simpatizzante ordinovista; Adalberto Baldoni come «un punto riferimento», per la Giovane Italia. Sembra, inoltre, che il padre fosse stato picchiato dai partigiani. Mogol smentisce sempre in modo ossessivo queste tesi sul Battisti politico, ma senza convincere davvero. Perchè, oltre a questi indizi vi è quella che forse è la prova regina: quell’ombra, dietro le sue spalle, dei servizi segreti. E’ risaputa, infatti, la storia per cui fu messo sotto sorveglianza dagli americani. Indovinate un po’ perchè?
Fui io a trovare la nota confidenziale dei servizi segreti che attribuiva a Lucio Battisti un ruolo di finanziatore dell’estrema destra. Nel corso di un’indagine della procura della repubblica di Milano sulle stragi degli anni Settanta mi imbattei in una serie di documenti dell’Ufficio Affari Riservati, il servizio segreto del ministero dell’Interno. Tra quei fogli vi era un’informativa che indicava Lucio Battisti come sovvenzionatore del Comitato tricolore per aiutare gli attivisti di estrema destra che avevano guai con la giustizia. Il Comitato tricolore svolgeva in sostanza a destra le funzioni che a sinistra erano prerogativa del Soccorso rosso.
Così Aldo Giannuli a Michele Bovi di Rockol. Giannuli è scrittore e consulente per vari magistrati in materia di intelligence. A sostenere la tesi anche il giornalista Roberto Di Nunzio, che si occupa delle strategie di comunicazione dello Stato maggiore dell’Esercito. Questa rivelazione destabilizzò il mondo dello spettacolo, per la verità all’epoca fieramente tinto di nero. Da Raimondo Vianello, che aderì alla Repubblica Sociale, fino a Walter Chiari, arruolatosi nella Xa MAS e nella Wehrmacht, passando per Patty Pravo, amica di Ezra Pund, infatti, c’era spazio nella musica e nel piccolo-grande schermo per chi aveva idee fasciste o simpatizzava. E del resto buona parte della cultura popolare deve tutto a un modo di pensare nazional-popolare. Vedi Fabrizi, vedi il Totò, monarco-fascista. Padrino di quel mondo fu Ettore Bernabei, giornalista e produttore, direttore della RAI dal 1961 all 1974, che da uomo della DC, vero e proprio tramite tra Fanfani e Moro, intelligentemente fece crescere i cavalli di razza dell’epoca invitandoli, paternamente, ad accantonare il furore politico (senza rinnegarlo). Altri tempi. Oggi devi negare sempre l’appartenenza a un determinato mondo o pagare il pizzo alle lobby per avere un minimo di prospettiva di carriera.
Battisti, forse, era un personaggio scomodo. Famoso, bello, di successo, fascista (?). Con ampio accesso a tv e platee. Se avesse parlato in un certo modo, e forse in qualche occasione pubblica fu in procinto di farlo, avrebbe certamente creato un terremoto. La folla che lo seguiva era enorme. Scomodo sì, troppo scomodo.
Così, proprio nel periodo degli Anni di Piombo, Battisti sparì. Ed è lo stesso Mogol a chiudere il cerchio. In una recente intervista a Repubblica spiegò come, effettivamente, il ritiro dalle scene fosse motivato non da motivi di salute o dall’eccessiva pressione mediatica bensì, proprio, dal motivo politico: “Il ’68 fu un anno terribile: o eri falce e martello o fascista. Per questo, dissi a Lucio di ritirarsi. Era meglio stare a casa che venire contestato durante i concerti. Arrivarono ad accusarci di simpatizzare per il fascismo poiché nel testo di La collina dei ciliegi, nominammo i boschi di braccia tese. Era solo un’invocazione, ma i palmi levati l’uno verso l’altro divennero, all’immaginario delle persone, saluti fascisti. Che follia!”.
Di certo i servizi non se ne preoccuparono più: Battisti, infatti, sparì letteralmente. Un caso? A Poggio Bustone, suo luogo di nascita, ne parlano a denti stretti. Perfino il ricordo è lasciato ad una misera statua relegata all’ingresso del paese. Spesso e volentieri abbandonata all’incuria. La famiglia si è chiusa in un silenzio tombale, eccessivo, forse sospetto. A Molteno, provincia di Lecco, dove per un periodo visse il cantante tutti ricordano la causa della famiglia contro il comune che voleva organizzare un festival su di lui. La figura di uno dei più grandi cantautori italiani si dissolse, così, nel nulla. Il difficile rapporto con i giornalisti, forse, o il bisogno di un ritorno alla tranquillità, alla terra, lo hanno portato a sparire. Eppure qualcosa, alla luce di quanto detto, e nei modi in cui avvenne, non torna.
E se oggi ho aperto gli occhi proprio con una sua canzone, c’è forse un motivo. Un invisibile filo conduttore che lega queste parole, quella musica, quel mondo. Per Battisti, quando morì, ho pianto. Avevo appena 14 anni. Forse il suo ricordo si doveva intrecciare con l’oggi: con un 29 settembre non casuale, con l’anticonformismo necessario dei nostri tempi, con uno spirito ideologico che a tutti i costi deve essere da qualcuno cancellato. Forse Battisti voleva che scrivessi questo pezzo. Oggi, in queste righe, in questo mondo che non ci vuole più: il mio, il nostro, canto libero, caro Lucio, sei proprio tu.
Bellissimo