di Vincenzo Maida
La contraddizione più evidente del testo di riforma costituzionale approvato dal Consiglio dei Ministri è quella relativa proprio alla elezione diretta da parte degli elettori del Primo Ministro. Se l’obiettivo è, tra gli altri, quello di avvicinare i cittadini alle urne e quindi farli sentire partecipi e protagonisti, non si comprende perché continuare a riservare, di fatto, la scelta dei parlamentari ai partiti e non agli elettori attraverso le preferenze. Su questo punto dalle opposizioni non è giunto alcun rilievo. Le segreterie dei partiti, tutti, non intendono perdere la prerogativa di essere loro a scegliere gli eletti. E questa è una delle cause principali dell’allontanamento del corpo elettorale.
Un’altra contraddizione è che Giorgia Meloni proviene da quella Destra che si è sempre battuta, con Giorgio Almirante, per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Vi è dunque il fondato sospetto che voglia cucirsi addosso una riforma su misura.
Il percorso per arrivare all’approvazione definitivo del provvedimento è lungo e tortuoso e dalla presidenza del consiglio hanno già fatto sapere che anche in caso di fallimento, non si vi saranno conseguenze per la stabilità del governo.
Ma vediamo più da vicino i punti più salienti della riforma. Viene introdotto “un meccanismo di legittimazione democratica diretta del presidente del Consiglio dei ministri, eletto a suffragio universale con apposita scheda congiuntamente con quella per la elezione dei parlamentari ed egli deve essere necessariamente un parlamentare”.
Il secondo punto principale è che l’incarico del premier avrebbe una durata fissata a cinque anni, come le Camere, così da favorire “la stabilità del governo e dell’indirizzo politico”.
Nel ddl c’è anche la cosiddetta norma ‘anti-ribaltone’. Per garantire “il rispetto del voto popolare e la continuità del mandato elettorale conferito dagli elettori”, si prevede che il premier “possa essere sostituito solo da un parlamentare della maggioranza e solo al fine di proseguire nell’attuazione del medesimo programma di governo”. Qualora cessasse il mandato di questo sostituto, si dovrebbero sciogliere le Camere.
Quarto punto: si affida alla legge “la determinazione di un sistema elettorale delle Camere che, attraverso un premio assegnato su base nazionale, assicuri al partito o alla coalizione di partiti collegati al Presidente del Consiglio il 55 per cento dei seggi parlamentari, in modo da assicurare la governabilità”. In poche parole, si dovrebbe scrivere una nuova legge elettorale, ma senza concedere la parola agli elettori.
Infine è previsto il superamento della categoria dei senatori a vita di nomina del Presidente della Repubblica. Chi è già stato nominato resterebbe comunque in carica. A tal proposito sarebbe stato interessante se invece dell’abolizione, si prevedesse il ripristino di una norma degli anni ’30 che sanciva la nomina dei senatori a vita, ma essi dovevano pagare un importo annuale calcolato in ragione del loro reddito. Quando, ad esempio, fu nominato senatore a vita l’ing. Nicola Romeo, fondatore della casa automobilistica Alfa Romeo, gli fu richiesta la somma di 3.000 lire all’anno, che allora era un importo tutt’altro che trascurabile. Sarebbe stato davvero interessante vedere chi avrebbe conservato la carica e chi si sarebbe invece dimesso.