di Simone D’Aurelio
Il veganesimo oggi è un moda, ma ante litteram si pone anche come codice morale: chi non consuma carne è considerato un filantropo ed un’uomo affidabile e responsabile.
La gnoseologia postmoderna recita dei dharma ambigui sotto questo punto: infatti, se la degustazione di bistecche oggi è demonizzata ed è concepita quasi come un omicidio dall’altro lato vediamo che la società inneggia all’aborto in modo totalitario. Inoltre se piangiamo per chi consuma delle uova per le frittate, dall’altra parte c’è anche la totale volontà di sottomettere i corpi allo stato (si pensi ai sieri sperimentali), e se si parla di solidarietà verso gli animali in realtà
contemporaneamente abbiamo di fronte a noi la società più spietata di sempre, con una competizione selvaggia machiavellica, onnipervasiva e di stampo darwinistico che è presente in ogni angolo della nostra civiltà (dalla scuola fino al lavoro, dai duelli orizzontali tra uomo e donna fino alla divisione di sangue tra padre e figli ecc. ecc.).
Se le contraddizioni del mondo postmoderno e vegano sono moltissime, il veganesimo in sé, a livello di noema resta una distopia per dei semplici motivi: primo tra tutti è perché la natura dell’uomo è scritta anche nei suoi geni, ed è un’onnivoro, quindi è progettato per consumare carne. Per secondo non possiamo scordare che la carne, se ben dosata,
aiuta moltissimo la nostra dieta e il nostro organismo. IL nostro corpo in Europa è cresciuto per millenni tramite questo tipo di nutrizione disegnando anche la storia della biologia evolutiva, e non può mancare inoltre una terza considerazione: se tutti diventiamo vegani per non uccidere gli animali e portiamo avanti il ragionamento all’infinito è evidente che ci possono essere problemi sociali (un’ipotesi può riguardare una moltiplicazione smisurata di cinghiali ad esempio).
Ad oggi ancora arriviamo a un feticismo, eppure possiamo dire che l’animale per molti vegani (o simili) è solo uno snodo psicologico per dimostrare a sé stessi di essere “bravi”, per appagare la propria voglia di avere degli scambi affettivi, e in una società povera di relazioni umane e totalmente depressa, molti provano a consolarsi con gli animali. Un processo però che non elimina la nostra sete di alterità, di scambi e di umanità, e, dove Dio tramonta, allora il valore dell’uomo e dell’animale sembrano depauperarsi totalmente fino ad arrivare a scemare, in termini di senso di significato, di rapporti e di limiti. Eppure al di là di questo c’è da considerare lo snodo centrale della questione, anche mettendo tra
parentesi tutte le mie obiezioni rimane un problema che è quello degli allevamenti intensivi. La speranza dei vegani, infatti, è collegata verso un boicottaggio di questo modus operandi tramite il consumo di frutta e verdura, non riuscendo a leggere i coincidentia oppositorum che sono collegati dietro a questo disegno: se questo modello di mercato è arrivato a toccare gli esseri viventi si sposterà semplicemente “di lato” trattando gli alberi e le coltivazioni nello stesso modo.
Non mancano infatti le multinazionali sul panorama che attualmente ci emanano sorrisi green spiegandoci che loro distruggono questo sfruttamento perché usano il mango, l’avocado e le verdure, eppure si scordano di comunicarci che i loro prodotti sono il risultato di una colonizzazione ambientale, di un’uso sfrenato e discutibile della tecnica,e di una oppressione dei contadini che vivono in condizioni disumane. Tutto questo equivale a spostare semplicemente la mentalità capitalistica e apolide dalla carne alla frutta e verdura, eppure la vera soluzione per battere questo leviatano non risiede nel mettersi a dieta o nell’abolire questo o quello, piuttosto risiede nelle nostre scelte di consumo e nella costruzione dei tessuti piccoli e intermedi nella nostra società che sono in grado di tutelarci e di tagliare le gambe al mondo neoliberale.
Anche se andiamo di fretta in un mondo che cerca di farci accelerare sempre di più noi dobbiamo riscoprire i ritmi a media intensità e la civiltà degli scambi, dove la spesa la facciamo dal macellaio di fiducia, che tratta gli uomini degnamente (senza vederli come semplici numeri), ma che ha anche un senso di civiltà per quanto riguarda gli animali, senza essere nè un feticista nè uno spietato sfruttatore che fa uso degli allevamenti intensivi o metodi analoghi.
Si sente il bisogno di enti filtro che diano il via a questa possibilità tramite un’economia locale, un’insieme di monete complementari, e una rete comunitaria che oggi possa fermare l’avanzata del drago della finanza, e che può farci riscoprire i borghi, i rapporti di prossimità; mostrandoci come il lavoro e il cibo prima di essere un business, è frutto delle tradizioni, della passione, e di determinate popolazioni.
Le scelte coraggiose e comunitarie possono cambiare per davvero il sistema e metterlo alle corde, creando dall’interno un tessuto sociale che ignora il neoliberismo ed i suoi arti, costringendolo ad abbandonare il campo di battaglia o a una lotta estenuante fino all’ultimo round.