di Luigi Cortese.

Il 19 gennaio ’69, 55 anni fa, moriva il patriota cecoslovacco Jan Palach, datosi fuoco sulle scale della biblioteca nazionale di piazza San Venceslao a Praga.

Jan, non ancora ventunenne, era uno studente di filosofia all’Università di Praga e scelse il martirio per gridare al mondo la parola proibita “Libertà”, il mondo che era restato muto davanti all’aggressione sovietica. Nell’anno precedente, il 1968, l’onda lunga della contestazione giovanile riuscì ad oltrepassare la cortina di ferro, portando con se le idee di libertà. Idee che, in quella parte di Europa controllata dall’Unione Sovietica, non erano gradite.

Le idee di libertà presero piede grazie a Alexander Dubcek, che durante i suoi pochi mesi di governo concesse maggiori diritti civili ai cittadini, allentò la censura sulla stampa e sui movimenti politici, dando così vita alla cosiddetta “primavera di Praga”, ma all’amico sovietico questo non fu gradito, ed ecco che arrivarono i carri armati con la Stella Rossa in “aiuto fraterno” contro i “reazionari” invadendo piazza San Venceslao che era il simbolo di Praga. Il popolo apparve rassegnato a questo, anche perché era ancora vivo il ricordo dell’invasione dell’Ungheria nel 1956, unica speranza era nel mondo occidentale che invece resto fermo.
Ma a Praga non tutti piegano la testa davanti ai “fratelli” sovietici: c’è un gruppo di studenti che vogliono fare qualcosa, vogliono ribellarsi all’invasione, vogliono libertà.

Jan Palach il 16 gennaio si trova in piazza San Venceslao e, davanti agli occhi attoniti di un tranviere, getta lontano il suo zaino e comincia a inzupparsi gli abiti di un liquido contenuto in una lattina bianca e in modo fulmineo si diede fuoco. L’urlo di dolore e il corpo in preda alle fiamme che si contorceva sul selciato paralizzarono la folla: una folla fitta a quell’ora sulla piazza più vasta della città, la piazza che i carri armati sovietici avevano presidiato a lungo nell’estate. Mille sguardi rimasero puntati immobili, esterrefatti, sulla torcia umana. Il primo a muoversi fu il bravo tranviere che aveva seguito fin dall’inizio le strane, veloci mosse di Jan: si tolse il cappotto e lo gettò sul giovane per spegnere le fiamme. L’udì gridare: “La lettera, salvi la lettera”. E non capì quel che volesse dire. Ci volle un po’ di tempo prima di capire che Jan Palach si era sacrificato “per scuotere la coscienza del popolo”, per spezzare il clima di rassegnazione che imprigionava la gente in una resistenza puramente morale, intima, destinata a riassorbirsi col tempo, con la routine quotidiana e i suoi inevitabili compromessi.

La lettera di cui parlava Jan fu trovata nel suo zaino e diceva “Abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo”, scrive. “Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana”.

Il funerale di Palach si trasformò in una protesta di massa. Un mese dopo, il 25 febbraio 1969, un altro studente, Jan Zajíc, seguì il suo esempio e si diede fuoco sempre a piazza San Venceslao. Ad aprile a darsi fuoco fu un altro studente Evžen Plocek, nella città di Jihlava.

Definire Jan Palach un eroe è riduttivo. Jan diventa un simbolo, il suo non è un gesto di disperazione, è un’offensiva, un’offensiva contro quelli che rifiutano di lottare per la propria libertà. Oggi Jan Palach dev’essere un’icona per tutti i giovani che non si omologano al sistema. Jan Palach deve diventare la loro Stella cometa.

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