di Gloria Callarelli (fonte ProVitaeFamiglia)

L’annuncio di Elon Musk della prima sperimentazione di Neuralink su un essere umano ha i suoi risvolti etici anche per la nuova denominazione che ha assunto: Telepatim. Non a caso, è termine che suggerisce la funzionalità e suggerisce quello che, al di là degli annunci di rito volti a far accettare il meccanismo quale strumento sanitario miracoloso, si prefigge a lungo termine realmente Musk. Sul punto abbiamo intervistato Giulia Bovassi, ricercatrice bioeticista, che spiega le implicazioni di questa novità annunciata dal magnate.

Dottoressa, parliamo di Telepatim. Innanzitutto di cosa si tratta?

«Di per sé è un apparecchio che si colloca nella parte esterna del cranio, dietro l’orecchio, e che riesce a collegarsi a livello cerebrale e neurologico grazie a un collegamento fatto da dei filamenti sottilissimi che vengono impiantati a livello del cervello».

Quali sono le novità rispetto a quanto già annunciato sui microchip?

«Una delle novità sta nel fatto che non solo il primo essere umano che si è sottoposto a questa sperimentazione ha dato dei buoni risultati, nel senso che il paziente sta bene, ma che l’impianto è stato eseguito, a quanto è dato sapere, da un robot chirurgico con massima precisione nell’inserimento di questi fili sottilissimi impiantati nel cervello. Un robot costruito ad hoc per l’occasione per la realizzazione di un processo chirurgico definito minimamente invasivo».

E questo nonostante si parli di intervenire sul cervello. Come avviene questo inserimento e come funziona il meccanismo?

«Questo impianto eseguito chirurgicamente va a inserire un chip insieme ad altre componenti di natura elettronica all’interno del cranio del paziente. Le comunicazioni che avvengono sono wireless: inviano e decifrano in qualche modo i dati cerebrali che vengono raccolti e poi tradotti e decodificati in una risposta esterna. Devono dunque tradurre il significato dei segnali raccolti e inviati in una risposta decodificata in una serie di dati».

Quali sono gli obiettivi ufficiali e ufficiosi cui si vuole arrivare con questo chip?

«Si pensa che l’intenzionalità sia quella di andare ad agire per costruire agevolazioni dal punto di vista comunicativo in maniera diretta tra il cervello e la macchina e il dispositivo esterno digitale, destinato ad alleviare delle condizioni di disabilità in pazienti affetti da malattie neurologiche come Sla e Parkinson che possono con questo sistema migliorare la propria qualità di vita. Questo sarebbe l’intento paventato ma sappiamo, e Musk mai ne ha fatto mistero, l’obiettivo non è solo quello ma anche quello di raggiungere finalità potenziative, ovvero contribuire a creare uno strumento tecnologico che possa andare a potenziare le stesse capacità cognitive. Sviluppi dell’AI che avrebbero in sé la visione di annientamento e superamento dell’umano la quale ritiene scientificamente possibile ed economicamente supportata l’idea che l’uomo debba raggiungere la simbiosi con la macchina potenziando le proprie capacità in una condizione nuova, ibrida, simbiontica di uomo-macchina».

E’ il primo caso?

«No, quanto compiuto da Musk non è una novità: il suo progetto è una neuroprotesi che si include nelle interfacce uomo-macchina e uomo-computer che collegano l’essere umano e la sfera intima con dispositivi esterni. Non è il primo caso che ci porta a parlare di queste tecnologie: già nel 2006 un paziente paralizzato ricevette un impianto cerebrale e attraverso questo impianto riuscì a giocare a ping-pong solo con il pensiero. Da lì ci furono tantissimi sviluppi nell’ambito delle protesi robotiche. Uno degli aspetti di questa comunicazione legata a Neuralink non è la novità della comunicazione, ma l’estrema efficienza della stessa e l’opportunità tecnica di potenziare funzionalità esistenti o crearne di nuove. A differenza di tecnologie simili, dunque, si associa questo progetto al transumanesimo. Ma prima di arrivare a questo è chiaro che ci sono dei risvolti sul piano scientifico ed etico».

Un meccanismo che apre a infinte problematiche e questioni etiche.

«Sì. Se queste tecnologie non vengono usate per la cura occorre capire che margine abbiamo per quanto riguarda la reversibilità. Lo sono o no? Qual è l’impatto sui neuroni esistenti e a livello neurologico in caso di rimozione se la stessa è fattibile? Quali gli effetti? Altri aspetti etici: possiamo pensare alla questione della sicurezza informatica. Potrebbe infatti subire manipolazioni e influenze esterne con intenzionalità magari non positive e non benefiche né per il paziente né per l’utente. Poi un altro aspetto da valutare è quello di capire se tutto questo può causare danni fisici. Ci può essere una decomposizione del materiale? Quali sarebbero le ripercussioni a livello clinico se magari la procedura chirurgica non dovesse andare in porto visto che si tratta di chirurgia robotica? Di chi la responsabilità? E poi: se si verificano errori nella decodifica delle informazioni? Infine c’è la questione legata ai neuro diritti in particolare della privacy e della integrità psicofisica che si collegano alla libertà e alla sicurezza».

Siamo quindi in pieno transumanesimo e tutto ciò riguarda l’essere umano anche nel suo intimo?

«Sì. Proprio perché riguarda l’essere umano nella sua sfera intima neurologica, cognitiva e psichica nel momento in cui si vuole agire per cercare di interpretare una vera lettura della mente e della persona (su questo si aprono dibattiti sulla decodifica della coscienza) ecco che si aprono delle questioni che riguardano l’evoluzione autodiretta della specie. Il dibattito è aperto. La neurobioetica si chiede fino a dove è lecito, se è lecito, potenziare la mente umana con le nuove scoperte. E’ lecito intervenire sul cervello? E’ possibile pensare a una riorganizzazione sociale rispetto a questi progressi? L’uomo sarà qualcosa oltre il suo cervello? Si tratta di una nuova metafisica dell’etica. Si rimettono in discussione i concetti di normalità, di salute e di malattia. Sani e malati sono interscambiabili?».

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