di Vincenzo Maida
I dati diffusi dall’ISTAT. fanno registrare un quadro sostanzialmente stabile sia della povertà assoluta che di quella relativa. E non è una buona notizia. Alcune idee per porvi rimedio.
Nel 2023, le famiglie in povertà assoluta si attestano all’8,5% del totale delle famiglie residenti (erano l’8,3% nel 2022), corrispondenti a circa 5,7 milioni di individui (9,8%; quota pressoché stabile rispetto al 9,7% del 2022). Invariata anche l’intensità della povertà assoluta a livello nazionale (18,2%). La soglia di reddito per distinguere la povertà assoluta da quella relativa è di 1150 euro per una famiglia composta da due persone.
L’incidenza di povertà assoluta è stabile all’8,2% tra le famiglie con persona di riferimento occupata (interessando oltre 1 milione 100mila famiglie in totale). Da segnalare, però, un peggioramento rispetto al 2022 della condizione delle famiglie con lavoratore dipendente: l’incidenza raggiunge il 9,1%, dall’8,3% del 2022, riguardando oltre 944 mila famiglie. Per quanto riguarda la spesa delle famiglie, fa sapere l’ISTAT che nel 2023, secondo la spesa media mensile è cresciuta in termini correnti del 3,9% rispetto all’anno precedente. In termini reali invece si riduce dell’1,8% per effetto dell’inflazione (+5,9% la variazione su base annua dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo), senza particolari differenze tra le famiglie più o meno abbienti. E infine nel Nord, dove le persone povere sono quasi 136mila in più rispetto al 2022, l’incidenza della povertà assoluta a livello familiare è sostanzialmente stabile (8,0%), mentre si osserva una crescita dell’incidenza individuale (9,0%, dall’8,5% del 2022). Il Mezzogiorno mostra anch’esso valori stabili e più elevati delle altre ripartizioni (10,3%, dal 10,7 del 2022), anche a livello individuale (12,1%, dal 12,7% del 2022).
Questi i dati su cui bisogna ragionare per individuare delle soluzioni che possano tentare di invertire la tendenza.
Tutte le politiche fin qui messe in piedi hanno sostanzialmente fallito l’obiettivo e si sono rivelate dei semplici palliativi. Dal reddito di cittadinanza al reddito minimo di inserimento, dal contributo per il fitto dell’abitazione a quello per il sostentamento alimentare, il risultato conseguito è stato unicamente quello di tamponare le situazioni di indigenza, ma non hanno rappresentato una inversione di tendenza.
Molti titolari di piccole attività artigianali lamentano la difficoltà a trovare giovani che abbiamo voglia di imparare un mestiere. Paliamo di attività remunerative come quella dei muratori per piccole attività di riparazioni o di ristrutturazioni di immobili, di lavori idraulici, di pitturazioni, di barbieri e di tante altre attività che una volta rappresentavano lo sbocco lavorativo per migliaia di giovani dopo un periodo di apprendistato. Gli ultimi tre anni della scuola dell’obbligo avevano un doppio indirizzo quello Medio e quell’Avviamento a cui poteva seguire la scuola di Arte e Mestieri.
Non tutti sono portati per lo studio, tanti hanno una più spiccata vocazione per i mestieri, per il lavoro manuale.
In questa direzione bisognerebbe investire, rendendo tali lavori attrattivi ed equiparandoli come status simbol sociale a quelli relativi al lavoro intellettuale.
il problema del lavoro manuale è che è, appunto,manuale.e spesso faticoso.volete mettere col fare l’influencer ( qualsiasi cosa significhi) o il giornalista ( mi pare barzini junior: che fare il giornalista è sempre meglio che lavorare),o il politico e/o dirigente di aziende parastatali?
Diciamo pure che il lavoro manuale, oltre ad essere faticoso, gode di una considerazione sociale prossima allo zero.