di Simone D’Aurelio

Molti pensano che il capitalismo sia solo un semplice sistema economico che si inserisce all’interno della società, il presente articolo invece vuole provare a ripensare questo assetto ipotizzando che sia il capitalismo stesso a plasmare l’apparato sociologico.

Se è evidente che oggi le imprese investono ogni singolo centesimo sulla propria attività, e che l’unica cosa che conta per la vita dell’azienda è il profitto, possiamo spostare questo tipo di filosofia all’interno delle relazioni contemporanee: ciò che risulta evidente è che ogni persona ragiona in modo utilitaristico e vive da imprenditore ogni scelta, anche in termini personali dove il guadagno sembra prevalere su ogni altra cosa.

E’ da notare che qualsiasi apparato che oggi si inserisce per contrastare il mercato viene spazzato via, così come ogni filosofia alternativa a quella neoliberale viene respinta ed etichettata come un totalitarismo: si pensi alle politiche sanitarie, all’aborto, al cambio di sesso, così come alla rimodulazione del mondo nell’apparto green, tutte realtà che sono ritenute fondamentali ma sono collegate a modelli di business. Dalla comunicazione dei trapper agli status symbol tutto viene visto sotto gli aspetti della realtà imprenditoriale, non è un caso che la nostra stessa vita diventi una promozione totipotenziale trasformandoci in pubblicità ambulanti (si pensi alla Ferragni e al mondo degli influencer).

Questa realtà ha distrutto le grandi ideologie, ma non rappresenta la fine delle ideologie, ne ha solo creata un’altra dove la realtà è mediata dal mercato e inserita in esso, facendo di lui il protagonista di ogni cosa; lo stesso denaro, sempre più liquido e volatile, è anche la forma trascendente con cui si misura ogni realtà nella nostra vita (dai rimborsi per i morti nelle assicurazioni fino alla possibilità di avere un utero in affitto per decidere se, quando e come aprirci
alla vita, la fine e l’inizio sono ormai un business), lo svago ormai è commercializzato in ogni sua parte, così come anche le vecchie istituzioni, seguendo lo schema americano, si sono privatizzate diventando vere e proprie società (si pensi prima di ogni altra cosa alla sanità).

L’impresa e la persona in questo caso ragionano allo stesso modo, nessuno di loro sul piano sociale è tenuto a rendere conto agli altri, seppure le loro scelte toccano ognuno di noi, l’importante qui è tenersi dentro al perimetro del mercato e della legge, perché i valori che toccano la società in termini di etica, di coesione e di morale diventano realtà isolate e relegate nel privato (prima su tutti la religione) e si crea così una società di individui privi di qualsiasi riferimento trascendente, che non hanno nessuna possibilità di unione, perché privati di ogni schema metafisico e di valori condivisi. Arrivati a questo punto rimane un relativismo assoluto da una parte, e dall’altra il mercato che è una realtà liquida, ma anche assoluta in questo caso, dato che è l’unico arbitro che viene sbandierato come imparziale e dove tutti noi siamo coinvolti, poco importa se a livello fiscale e politico il gioco è anche truccato, e se per la sua natura il capitalismo non offre le stesse possibilità a tutti ed è un meccanismo sempre più spietato.

Come la ricchezza in questo sistema si concentra sempre più nelle mani di pochi, così nella realtà sociale la nostra vita diventa sempre più povera di affetti. In fondo l’assioma è sempre lo stesso: puntare solo su di sé, credendo di poter superare gli altri. Non ci si accorge che con il tempo ci impoveriamo noi, in modo esponenziale, e infatti oggi, arrivati al culmine della corsa capitalistica, tutte le grandi famiglie di imprenditori italiane sono state assorbite dalle holding e dai grandi fondi d’investimento e dalle regole della finanza, e anche da assetti internazionali a cui interessa solo il profitto e che sono sempre più staccati dai proprietari e dalle storie imprenditoriali, creando realtà più impersonali, forti e delocalizzate. Allo stesso tempo nella realtà umanitaria si è arrivati alla generazione dei monolocali, degli asterischi e dell’indefinito, creando si una mentalità da self made man, ma anche delle personalità liquide, astratte, egoistiche e assolutamente infantili.

In entrambi i casi vince chi è in grado di investire di più in questa asta infinita, che sia la persona partendo con l’istruzione, o che sia l’impresa con i suoi mezzi, più si va avanti più si alza l’asticella, si nota infatti il divario di tempo e di investimenti che è sempre maggiore rispetto al passato. Di fronte alla fluttuazione del mercato, lo stato ci mostra che anche la nostra vita deve essere priva di certezze, e si deve vivere di città in città, spostandosi insieme al capitale e ai contratti precari, ma la rimodulazione di questo schema prima o poi finirà.

Questa generazione di uomini depressi prima o poi si accorgerà che il gioco è truccato, dato che la volontà generale di questa filosofia commerciale americana è solo quella di spostare la tensione metafisica dell’essere umano all’interno del mercato, pensando di rinchiudere l’eterno all’interno di una offerta infinita, con abbonamenti di ogni tipo, dalle app per socializzare, a quelle per la mobilità, dal credito telefonico a quello sociale e tecnologico da cui si è sempre dipendenti.
Eppure per quanto si voglia ragionare in termini economici e far credere che la vita sia solo una sfrenata lotta che c’è tra l’apparire (diventando traffico vivente utile ai social) e il consumare (tra shopping, vacanze, e rinnovo di una nuova promessa di benessere al nostro prossimo acquisto) prima o poi questa società sarà scossa alle fondamenta che reclamano un mondo religioso, etico, culturale, e antropologico che oggi è impossibile da pensare di fronte a una sociologia che crea solo solitudine, sgomento e un contrattualismo diffuso (si pensi ai reciproci accordi della quotidianità, in linea con i contratti a progetto) che non ha possibilità di dare una minima soddisfazione al nostro
cuore e alla nostra anima, e al nostro essere.

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