Nella notte di domenica un raid aereo israeliano ha colpito Rafah, causando una devastazione che ha portato alla morte di 45 palestinesi. Tra le vittime, molte erano rifugiate nel Kuwaiti Peace Camp 1. Secondo il ministero della Salute di Hamas, le bombe utilizzate erano piccole, ma letali, e di fabbricazione americana.
Questo fatto, sebbene prevedibile visto che gli Stati Uniti forniscono quasi il 70% delle armi importate da Israele, pone una grave contraddizione per l’amministrazione di Joe Biden. La prova tangibile è un numero di serie rinvenuto su un frammento di bomba e riportato dai media americani come CNN e New York Times. Il codice “81873” identifica l’azienda Woodward del Colorado, produttrice dei componenti per le bombe GBU-39, utilizzate nel raid.
Questi ordigni, che pesano 139 kg e sono in commercio dagli anni 2000, sono progettati per ridurre i danni collaterali. Tuttavia, come sottolineano gli esperti, “ridurre” non significa annullare, specialmente in aree densamente popolate come Rafah.
Per mesi, la Casa Bianca ha cercato di persuadere Israele a evitare l’uso delle bombe da 900 kg, preferendo le GBU-39. Nonostante ciò, il Segretario di Stato Antony Blinken ha evitato di confermare ufficialmente la provenienza delle bombe, affermando che “attenderemo i risultati dell’indagine.”
John Kirby, portavoce di Biden, ha sostenuto che 17 kg di esplosivo siano sufficienti per non superare la “linea rossa” nelle operazioni israeliane, nonostante le dichiarazioni dell’alto consigliere per la sicurezza nazionale israeliano, Tzachi Hanegbi, che ha annunciato che la guerra durerà “almeno altri 7 mesi.” Kirby ha ribadito che “Biden vuole la fine del conflitto.”
Nel frattempo, l’esercito israeliano ha preso il controllo del corridoio di Filadelfia tra Rafah e l’Egitto, riportando la questione della cessazione dell’offensiva al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. L’Algeria ha proposto una risoluzione per fermare immediatamente le operazioni nel sud della Striscia di Gaza e per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi. Francia, Paesi arabi, Russia e Cina sono pronti ad appoggiarla, ma il veto degli Stati Uniti incombe come un’ombra sul dibattito.
Nonostante il “cuore spezzato” per la tragedia di Rafah, come ha dichiarato il vice ambasciatore americano all’ONU Robert Wood, gli Stati Uniti ritengono che “ogni documento in questo momento non sarà utile e non cambierà la situazione sul terreno.” Washington, ufficialmente, sta ancora valutando.
La critica qui sollevata non è solo contro le decisioni belliche di Israele, ma anche contro il malcelato sostegno americano, che sembrano alimentare un ciclo infinito di violenza e devastazione. La domanda che rimane è: quanto ancora dovrà soffrire la popolazione palestinese prima che si prenda una decisione concreta per la pace?
Per la sua politica in Medio Oriente (e non solo) l’America è ostaggio della lobby filoisraeliana. L’appoggio incondizionato che ha sempre dato e continua a dare allo Stato ebraico non dipende da motivazioni morali o interessi strategici, ma dall’enorme potere d’influenza che la lobby esercita sul parlamento, sul governo e sullo stesso presidente degli Stati Uniti. Senza il sostegno dell’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) è praticamente impossibile che un politico venga eletto nel parlamento federale, e se viene inserito nelle liste di proscrizione stilate dall’ADL (Anti-Defamation League) la sua carriera è finita.
Pertanto, tutto lascia prevedere che, tra “imbarazzi”, “cuori spezzati”, “cordoglio per le vittime innocenti” e “linee rosse” sistematicamente violate, gli USA continueranno a fornire pieno sostegno economico, militare e politico alla Bestia sionista, fino a quando non si sottrarranno al potere di quel gruppo di pressione interno che li sta portando alla rovina morale prima ancora che materiale.