di Luigi Cortese

In un momento in cui il numero delle vittime a Gaza continua a salire in modo allarmante, la decisione degli Stati Uniti di sbloccare l’invio di bombe da 200 kg a Israele solleva gravi preoccupazioni e critiche. Una sessantina di corpi sono stati scoperti sotto le macerie a Shujaiya, quartiere a est di Gaza City, dove l’esercito israeliano si è ritirato mercoledì dopo due settimane di operazioni. Lo ha riferito la Protezione civile della Striscia. Sempre secondo le autorità di Gaza, ieri sono rimaste uccise almeno altre 50 persone, facendo salire il bilancio dei morti ufficiali dall’inizio della guerra a 38.345.

Nonostante questo tragico bilancio, gli Stati Uniti hanno deciso di rimuovere parzialmente il blocco sulla fornitura di bombe pesanti a Tel Aviv, imposto a maggio dal presidente Joe Biden nel tentativo di spingere Israele a ridurre il numero di vittime civili. La decisione, anticipata dai media israeliani e americani, è stata confermata dal consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e dall’inviato della Casa Bianca per il Medio Oriente Brett McGurk, che ha incontrato a Tel Aviv il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant.

Questa mossa, apparentemente motivata dalla pressione del primo ministro israeliano Netanyahu sull’amministrazione Biden, è stata accolta con sgomento e indignazione. Le bombe da 225 kg, o 500 libbre, sono ora “in fase di consegna”, mentre il divieto sulle bombe da 900 kg (2000 libbre), responsabili delle devastazioni dei primi mesi di conflitto, rimane in vigore. Tuttavia, questa distinzione è di scarso conforto per le vittime sul campo e per chi spera in una soluzione pacifica.

Le ragioni dietro questa decisione sono state ascritte alla debolezza politica di Biden, che si approssima a una visita a Washington a fine luglio. La Casa Bianca ha tentato di rilanciare i negoziati di pace, parlando di “passi avanti significativi”. Tuttavia, la realtà sul terreno dipinge un quadro ben diverso. Nonostante il sì di Hamas e Israele a cedere il controllo politico della Striscia all’Autorità palestinese, con il supporto di Paesi arabi e USA, permangono significative distanze sulla fase uno della roadmap di Biden per il cessate il fuoco, che prevede una tregua di sei settimane e il rilascio di alcuni ostaggi.

Nel frattempo, Netanyahu ha chiarito che tra le condizioni di Tel Aviv per la tregua c’è il controllo del Corridoio Philadelphia e del valico di Rafah, e ha dichiarato che la guerra continuerà “finché non raggiungerà tutti gli obiettivi” e “fino alla vittoria“. Questa retorica bellica alimenta ulteriori tensioni e ostacola qualsiasi progresso verso la pace.

Gli Stati Uniti hanno anche imposto ulteriori sanzioni contro i coloni estremisti della Cisgiordania, e il G7 degli Esteri ha condannato l’espansione degli avamposti stabilita dal ministro di ultradestra Bezalel Smotrich. Tuttavia, queste misure sembrano essere gesti simbolici piuttosto che azioni concrete volte a fermare l’escalation di violenza.

L’Idf (Israeli Defense Forces) ha reso pubblica la prima indagine sulle falle di sicurezza del 7 ottobre, limitata per ora al raid sul kibbutz Be’eri. Si è accertato che per molte ore le forze israeliane non sono state in numero sufficiente per rispondere ai miliziani di Hamas. Questo episodio mette ulteriormente in luce la complessità e la tragicità del conflitto in corso.

La decisione degli Stati Uniti di fornire ulteriori bombe a Israele non fa che alimentare la spirale di violenza e morte, dimostrando una grave mancanza di rispetto per la vita umana e per gli sforzi di pace. È urgente una revisione delle politiche che privilegiano la forza militare rispetto alla diplomazia e alla ricerca di soluzioni durature e giuste per tutte le parti coinvolte.

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