di Luigi Cortese

Nella notte, Israele ha lanciato un’invasione di terra nel sud del Libano, giustificandola come un’operazione “mirata e limitata” contro le forze di Hezbollah. I raid, supportati dall’aeronautica e dall’artiglieria, hanno colpito villaggi vicini al confine, con l’obiettivo dichiarato di neutralizzare minacce per le comunità israeliane del nord. Tuttavia, al di là delle dichiarazioni ufficiali, questa operazione rappresenta un atto di ostilità che solleva gravi interrogativi, non solo riguardo la legittimità dell’intervento militare, ma anche sul ruolo complice e passivo della comunità internazionale.

La comunità internazionale, che dovrebbe garantire la stabilità e la pace nella regione, sta assistendo con un silenzio preoccupante a un’invasione che manca di motivazioni sufficienti per giustificare un’azione di tale portata. Gli Stati Uniti, che inizialmente sembravano esprimere riserve, hanno rapidamente cambiato tono, definendo l’operazione “rischiosa, ma legittima“. Un’inversione di posizione che, purtroppo, non sorprende, visto il costante sostegno che Washington fornisce allo Stato israeliano in ogni contesto di conflitto regionale.

L’invasione, al di là delle giustificazioni di sicurezza, appare come un atto di forza sproporzionato, che rischia di destabilizzare ulteriormente una regione già devastata da anni di conflitti e tensioni. Le operazioni militari contro Hezbollah, qualunque sia la loro precisione, portano inevitabilmente vittime civili e danni irreparabili alle infrastrutture. Questa offensiva ha già provocato morti tra i civili libanesi, tra cui sei persone, colpite durante un raid contro la casa di un leader delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa. Le perdite umane e i danni materiali si accumulano, ma il coro internazionale rimane assente.

Ciò che desta particolare preoccupazione, tuttavia, è l’assordante silenzio italiano di fronte a questo scenario. L’Italia, che ha un contingente significativo di truppe dispiegate in Libano nell’ambito della missione UNIFIL delle Nazioni Unite, sta tacendo su un’operazione militare che potrebbe mettere in pericolo i suoi stessi soldati. Le truppe italiane, impegnate da anni in missioni di peacekeeping nella regione, potrebbero ritrovarsi a rischio diretto di bombardamenti israeliani, eppure le istituzioni italiane sembrano ignorare questa minaccia.

Non si può restare indifferenti davanti alla possibilità che i nostri militari, inviati per garantire la stabilità e la pace in una zona già martoriata da conflitti, possano essere vittime collaterali di un’escalation militare scatenata da Israele. Il silenzio del governo italiano non solo sorprende, ma spaventa, perché è proprio in queste situazioni che l’Italia dovrebbe alzare la voce per tutelare la sicurezza dei propri soldati e per difendere il diritto internazionale.

La complicità silente della comunità internazionale è scandalosa. L’assenza di una condanna forte da parte delle principali potenze mondiali rappresenta una legittimazione implicita di quello che è a tutti gli effetti un atto di aggressione. Il diritto internazionale prevede chiaramente che ogni azione militare di questo tipo debba rispettare principi di proporzionalità e legittima difesa. Tuttavia, l’attacco israeliano sembra violare questi principi fondamentali, rendendo evidente come l’uso della forza militare diventi, sempre più spesso, un mezzo per realizzare interessi geopolitici senza che vi sia alcun serio intervento della diplomazia internazionale.

Ci si domanda allora: fino a che punto la comunità internazionale può permettersi di tollerare questo ciclo infinito di violenza? Quando si decide che l’uso della forza diventa illegittimo e inaccettabile? E, soprattutto, chi decide quale aggressione è giustificata e quale no? Il rischio è che l’attuale status quo porti a una completa erosione delle norme internazionali che dovrebbero regolare le relazioni tra gli Stati. Un’azione come quella intrapresa da Israele, senza una ferma condanna, invia un messaggio chiaro: l’uso della forza può essere accettato, a patto che sia fatto da chi ha sufficienti alleati nelle sedi internazionali.

Di fronte a un’invasione che non si limita a un atto di autodifesa, ma appare come una proiezione di potere, la risposta della comunità internazionale dovrebbe essere chiara e decisa. Al contrario, il silenzio e la mancanza di azione alimentano un ciclo di violenza che diventa sempre più difficile interrompere. Se il Libano è oggi il bersaglio, nulla esclude che domani tocchi a un altro Stato subire una simile violenza, avallata da una comunità internazionale che chiude gli occhi di fronte a simili aggressioni.

Il silenzio, in questo caso, non è solo complicità: è un vero e proprio contributo all’instabilità regionale e globale. Ma ciò che spaventa di più è che questo silenzio, da parte dell’Italia, metta a rischio anche la vita dei propri cittadini.

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