di Luigi Cortese

La guerra in Siria, lunga e sanguinosa, ha recentemente visto una svolta drammatica con l’avanzata inaspettata dei ribelli su Aleppo, simbolo della resistenza governativa. Questo evento solleva molte domande non solo sulla dinamica interna, ma anche sul ruolo di potenze straniere nel tentativo di destabilizzare un Paese che, sotto la guida di Bashar al-Assad, stava faticosamente cercando di ricostruirsi.

La caduta di Aleppo in pochi giorni, dopo anni di sacrifici per la sua liberazione dal terrorismo nel 2016, è un duro colpo per un Paese che aveva riaffermato la propria sovranità contro nemici interni ed esterni. I ribelli, guidati dal gruppo estremista Hayat Tahrir al-Sham (HTS), si sono mossi con una preparazione e risorse che non lasciano dubbi sul sostegno ricevuto dall’estero. Armi sofisticate, veicoli corazzati e uniformi nuove sono il segno evidente di un’operazione ben finanziata, orchestrata per indebolire ulteriormente la Siria e mantenere il caos nella regione.

Questa offensiva non è casuale. La Siria è da anni vittima di ingerenze straniere mirate a distruggere la sua integrità territoriale e politica. Gli attacchi israeliani contro Hezbollah e le infrastrutture iraniane hanno ridotto la capacità di risposta degli alleati di Damasco, mentre la Russia, impegnata su altri fronti internazionali, ha rallentato il suo coinvolgimento diretto. In questo contesto di fragilità, l’attacco ribelle sembra parte di un disegno più ampio per colpire il cuore del regime di Assad e portare avanti un’agenda volta a frammentare ulteriormente il Medio Oriente.

La Siria, sotto Assad, ha resistito per anni all’assalto di gruppi terroristici e alle pressioni di potenze regionali e internazionali. La narrativa che descrive questi ribelli come “oppositori moderati” è una manipolazione evidente: molti di loro sono affiliati a ideologie estremiste, come dimostrano le azioni dell’HTS, nato dalla costola siriana di Al-Qaeda. Il popolo siriano ha sofferto enormemente per le violenze inflitte da questi gruppi, che non rappresentano in alcun modo i suoi interessi o la sua volontà.

La scelta del momento per questa offensiva suggerisce una chiara strategia di destabilizzazione. Israele, con i suoi attacchi contro Gaza e l’Iran, e altre potenze occidentali potrebbero vedere nella crisi siriana un’opportunità per ridurre ulteriormente l’influenza dell’asse Damasco-Teheran-Mosca. La Turchia, pur rivestendo un ruolo ambiguo, sembra aver facilitato l’operazione ribelle, fornendo il sostegno necessario per alimentare il conflitto e perseguire i propri obiettivi strategici contro i curdi. Gli Stati Uniti, già responsabili in passato del sostegno a gruppi ribelli sotto il pretesto di favorire la democrazia, sembrano continuare la loro politica di destabilizzazione, puntando a impedire che Assad consolidi il potere.

La regia occulta americana potrebbe avere un doppio obiettivo: da un lato, indebolire l’influenza iraniana in Siria; dall’altro, garantire che il Paese resti un focolaio di conflitti che giustifichi la loro presenza militare nella regione.

In questo contesto, la resilienza della Siria e del suo popolo diventa ancora più cruciale. L’esperienza passata ha dimostrato che, nonostante le ingerenze e i tentativi di destabilizzazione, il Paese ha la capacità di resistere e riorganizzarsi. Assad, con il sostegno dei suoi alleati e la determinazione dei siriani, continua a rappresentare un punto di riferimento per chi cerca stabilità e unità in una regione che molte forze vorrebbero frammentare.

La diplomazia è ora chiamata a intervenire con urgenza, ma deve essere una diplomazia che rispetti la sovranità della Siria e il diritto del suo popolo a decidere il proprio futuro senza interferenze. Solo così si potrà porre fine a una guerra che, più che interna, sembra il riflesso di un complotto internazionale contro uno Stato che ha osato resistere.

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