La guerra in Siria, lunga e sanguinosa, ha recentemente visto una svolta drammatica con l’avanzata inaspettata dei ribelli su Aleppo, simbolo della resistenza governativa. Questo evento solleva molte domande non solo sulla dinamica interna, ma anche sul ruolo di potenze straniere nel tentativo di destabilizzare un Paese che, sotto la guida di Bashar al-Assad, stava faticosamente cercando di ricostruirsi.
La caduta di Aleppo in pochi giorni, dopo anni di sacrifici per la sua liberazione dal terrorismo nel 2016, è un duro colpo per un Paese che aveva riaffermato la propria sovranità contro nemici interni ed esterni. I ribelli, guidati dal gruppo estremista Hayat Tahrir al-Sham (HTS), si sono mossi con una preparazione e risorse che non lasciano dubbi sul sostegno ricevuto dall’estero. Armi sofisticate, veicoli corazzati e uniformi nuove sono il segno evidente di un’operazione ben finanziata, orchestrata per indebolire ulteriormente la Siria e mantenere il caos nella regione.
Questa offensiva non è casuale. La Siria è da anni vittima di ingerenze straniere mirate a distruggere la sua integrità territoriale e politica. Gli attacchi israeliani contro Hezbollah e le infrastrutture iraniane hanno ridotto la capacità di risposta degli alleati di Damasco, mentre la Russia, impegnata su altri fronti internazionali, ha rallentato il suo coinvolgimento diretto. In questo contesto di fragilità, l’attacco ribelle sembra parte di un disegno più ampio per colpire il cuore del regime di Assad e portare avanti un’agenda volta a frammentare ulteriormente il Medio Oriente.
La Siria, sotto Assad, ha resistito per anni all’assalto di gruppi terroristici e alle pressioni di potenze regionali e internazionali. La narrativa che descrive questi ribelli come “oppositori moderati” è una manipolazione evidente: molti di loro sono affiliati a ideologie estremiste, come dimostrano le azioni dell’HTS, nato dalla costola siriana di Al-Qaeda. Il popolo siriano ha sofferto enormemente per le violenze inflitte da questi gruppi, che non rappresentano in alcun modo i suoi interessi o la sua volontà.
La scelta del momento per questa offensiva suggerisce una chiara strategia di destabilizzazione. Israele, con i suoi attacchi contro Gaza e l’Iran, e altre potenze occidentali potrebbero vedere nella crisi siriana un’opportunità per ridurre ulteriormente l’influenza dell’asse Damasco-Teheran-Mosca. La Turchia, pur rivestendo un ruolo ambiguo, sembra aver facilitato l’operazione ribelle, fornendo il sostegno necessario per alimentare il conflitto e perseguire i propri obiettivi strategici contro i curdi. Gli Stati Uniti, già responsabili in passato del sostegno a gruppi ribelli sotto il pretesto di favorire la democrazia, sembrano continuare la loro politica di destabilizzazione, puntando a impedire che Assad consolidi il potere.
La regia occulta americana potrebbe avere un doppio obiettivo: da un lato, indebolire l’influenza iraniana in Siria; dall’altro, garantire che il Paese resti un focolaio di conflitti che giustifichi la loro presenza militare nella regione.
In questo contesto, la resilienza della Siria e del suo popolo diventa ancora più cruciale. L’esperienza passata ha dimostrato che, nonostante le ingerenze e i tentativi di destabilizzazione, il Paese ha la capacità di resistere e riorganizzarsi. Assad, con il sostegno dei suoi alleati e la determinazione dei siriani, continua a rappresentare un punto di riferimento per chi cerca stabilità e unità in una regione che molte forze vorrebbero frammentare.
La diplomazia è ora chiamata a intervenire con urgenza, ma deve essere una diplomazia che rispetti la sovranità della Siria e il diritto del suo popolo a decidere il proprio futuro senza interferenze. Solo così si potrà porre fine a una guerra che, più che interna, sembra il riflesso di un complotto internazionale contro uno Stato che ha osato resistere.
La Siria sembrava parzialmente stabilizzata dopo
la risoluzione ONU numero 2254 del 18 dicembre del 2015 che ,
in 15 articoli chiedeva , sostanzialmente , il cessate il fuoco , l’accordo fra le parti ad intavolare trattative di pace , la restituzione dei prigionieri , il non intraprendere nuove ostilità e l’impegno ad attuare già quanto stabilito dalle precedenti risoluzioni ONU numero 2139/2014 ; 2165/2014 e 2191/2014 .
Ma questo attacco a sorpresa ha vanificato tutti i precedenti sforzi .
Il presidente siriano Bashar al-Assad si è immediatamente attivato impegnando le proprie truppe nella regione di Aleppo e chiedendo aiuto ai suoi alleati .
I primi ad intervenire sono stati i caccia russi che hanno martellato gli insorti , a più riprese , nei territori di Idlib , nel nord-ovest della Siria , in quelli di Hama , nella Siria centrale e , soprattutto nelle regioni settentrionali di Aleppo .
Anche la Cina attraverso il portavoce del ministro degli esteri Lin Jian ha espresso il suo sostegno ad Assad ed il suo auspicio che le situazione si ristabilisca quanto prima .
Teheran , impossibilitata a mobilitare gli Hezbollah libanesi , ha deciso di far convogliare verso la Siria uomini e mezzi provenienti dall’Iraq . Convergeranno sul posto combattenti sciiti iraniani prelevati da vari gruppi presenti e disseminati sul territorio iracheno ed appartenenti alle milizie di Hshd al-Saahbi (ossia , Forze di Mobilitazione Popolare , istituite il 13 giugno 2015 dall’Ayatollah Alì al-Sistani per essere impiegate nella guerra civile irachena . Le ultime stime computano circa , 110.000 uomini , raggruppati in 60-70 milizie) e combattenti iracheni sciiti prelevati da Kata’ib Hezbollah e Fatemiyoun (il primo , letteralmente Brigate del Partito di Dio , sono la XLV , la XLVI e la XLVII , facenti capo ad Abu Mahdi al-Muhandis , composte prevalentemente da sciiti iracheni . Il secondo noto come Liwa Fatemiyoun , ossia stendardo Fatimide , o Brigata Fatimide , che fu impiegata nella guerra siriana a difesa del santuario di Zaynab bint Ali , nel 2014 , e ancor prima anche in Afghanistan contro le truppe sovietiche ) . Contingenti di questi reparti giungeranno , verosimilmente , in Siria , attraverso il valico di Al Bukamal , per dar manforte alle truppe di Damasco e , per contrastare gli insorti sunniti filo-turchi .
Intanto questa notte ci sono stati febbrili contatti tra Assad e Abbas Araghchi , ministro degli esteri di Teheran , per fare il punto sulla crisi . Questa mattina , invece , il capo della diplomazia iraniana ha incontrato ad Ankara il suo omologo Akan Fidan , per tentare di sbloccare diplomaticamente la situazione militare , con il benestare del portavoce del Cremlino , Dimitry Peskov .
Ankara , senza dubbio , è indirettamente coinvolta , come pure si riesce ad intravedere lo zampino di Washington , che aprendo quest’altro fronte , cerca di stornare forze e risorse russe dal fronte ucraino .
Staremo a vedere come si evolverà , nei prossimi giorni la situazione, se Teheran intenderà inviare nell’area altre forze e , soprattutto , cosa deciderà di fare , in concreto , Mosca .
è un caso che gli usa abbiano appena preso la presidenza di turno del consiglio di sicurezza dell’ONU?
Surclassati militarmente dalla Russia in Ucraina, sconfitti nelle elezioni in Georgia (dove stanno tentando di provocare una nuova Maidan), impantanati a Gaza (distrutta, ma con Hamas ancora vivo e vegeto), fermati da Hezbollah in Libano (nonostante due mesi di bombardamenti e attentati terroristici), umiliati dagli Houthi yemeniti nel Mar Rosso con il fallimento delle missioni Prosperity Guardian e Aspides, ecco che americani e sionisti accendono un nuovo focolaio di guerra in Siria con i loro alleati di sempre, i tagliagole islamisti (benevolmente chiamati “ribelli” dalla stampa occidentale).
L’importanza della Siria, come componente dell’Asse della Resistenza contro l’imperialismo americano-sionista in Medioriente, è evidente al solo guardar attentamente la carta geografica: se cade la Siria viene meno il corridoio sciita che da Teheran passa per Damasco e arriva a Beirut consentendo a Hezbollah di essere rifornito militarmente via terra.
La Russia, otto anni fa, dopo il suo decisivo intervento a favore di Assad, ha commesso l’errore di non distruggere il bubbone di Idlib (il covo dei terroristi sunniti sostenuti dalla Turchia) da cui sono venute le metastasi attuali. Ha confidato nel rispetto da parte del governo di Ankara degli accordi di Astana e Sochi, che invece sono stati puntualmente violati da Erdogan.
Il premier turco si è rivelato il solito doppiogiochista: da una parte aiuta la Russia a vanificare le sanzioni statunitensi ed europee, dall’altra vende armi all’Ucraina; a parole minaccia Israele, ma dopo quattordici mesi di massacri a Gaza non ha mosso un dito in difesa dei palestinesi, anzi, sembra fare proprio gioco di sponda con lo Stato ebraico.
Spero che dopo questa mossa non si parli più d’ingresso della Turchia nei BRICS, almeno fino a quando questo Paese resterà nella NATO.