di Luigi Cortese (foto fonte sito Governo)
L’aumento degli stipendi dei ministri deciso dal governo Meloni rappresenta un ulteriore passo in una direzione che disattende le promesse di cambiamento e discontinuità tanto sbandierate in campagna elettorale. Un governo che aveva dichiarato di voler segnare una svolta rispetto ai suoi predecessori si ritrova, invece, in perfetta continuità con le politiche degli esecutivi precedenti, sia sul piano dei privilegi politici che sull’abbandono delle istanze popolari.
Il precedente sugli stipendi dei sindaci
Va chiarito un punto importante: l’aumento degli emolumenti dei sindaci non è una decisione presa dal governo Meloni. Questo provvedimento è stato introdotto dalla legge di bilancio 234/2021, emanata durante il governo Draghi, e trova origine addirittura nel 2014, quando il governo Monti iniziò a discutere di allineare le indennità dei sindaci ai parametri previsti per altre cariche pubbliche. Tuttavia, l’attuazione di quella norma, che è avvenuta sotto l’attuale governo, ha portato molti a considerare Meloni responsabile di un atto che era già stato deciso in passato.
Ma ciò che differenzia l’aumento degli stipendi dei ministri è la scelta politica attuale, deliberata dal governo in carica. Qui non ci sono leggi pregresse a cui appellarsi: è una decisione pienamente imputabile all’esecutivo Meloni.
La continuità con Draghi e l’incoerenza di Meloni
Questo nuovo aumento agli stipendi ministeriali evidenzia ancora una volta la sostanziale continuità tra il governo Meloni e l’esecutivo Draghi. Giorgia Meloni, che all’epoca si era presentata come la principale oppositrice del governo tecnico, ha più volte criticato le sue politiche economiche e sociali. Eppure, proprio in materia di privilegi per i vertici della politica, la sua gestione sembra proseguire lungo lo stesso tracciato, se non peggiorare.
Le critiche che Meloni aveva rivolto al governo Draghi sui mancati interventi per il benessere del popolo suonano oggi come una farsa. La sua opposizione, così rumorosa e apparentemente intransigente, si rivela retrospettivamente un atto di facciata, utile solo a costruire consenso elettorale. Infatti, ora che ha il potere, invece di intervenire su pensioni, stipendi minimi e sostegno alle famiglie in difficoltà, Meloni sembra aver deciso di concentrare le risorse su chi è già economicamente privilegiato.
Una scelta lontana dal popolo
Questo atto è emblematico: in un momento di crisi economica, con un’inflazione che continua a erodere i risparmi degli italiani e un divario sempre maggiore tra le classi sociali, il governo preferisce destinare risorse all’aumento degli stipendi dei ministri. Eppure, in campagna elettorale, la destra guidata da Meloni aveva promesso un cambio di passo, appellandosi alla sua radice nella “destra sociale”, quella che avrebbe dovuto rappresentare il popolo, i lavoratori, i pensionati e le famiglie.
La realtà è un’altra: mentre milioni di italiani si trovano a fare i conti con un salario che non basta per arrivare a fine mese, con pensioni al limite della sussistenza e un costo della vita sempre più alto, la priorità dell’esecutivo è stata quella di garantire migliori emolumenti a una classe politica che già gode di innumerevoli vantaggi.
Un tradimento della destra sociale
Questo episodio smaschera un governo che non solo non rompe con il passato, ma che si rivela ancora più distante dalle esigenze della popolazione. La destra sociale, quella che Meloni rivendicava come la sua identità politica, avrebbe dovuto battersi per ridurre le disuguaglianze e per riportare la politica al servizio del cittadino. Invece, l’operato del governo sembra tradire quei principi in nome di un pragmatismo che premia i privilegiati e dimentica le promesse fatte agli elettori.
In definitiva, l’aumento degli stipendi dei ministri non è solo un atto economicamente discutibile, ma un gesto simbolico che rappresenta una politica in continuità con i governi precedenti e che tradisce i valori di giustizia sociale tanto decantati. Giorgia Meloni e il suo governo stanno mostrando il volto di una destra che abbandona il popolo in favore delle élite. Una destra che di sociale ha ormai solo il ricordo.
Nihil novum sub sole !
Seguono le politiche di Ayn Rand. Appena fai il suo nome, si spaccano tutti gli specchi, tanto che è brutta. Non si capisce, infatti, come un soggetto del genere, viscido come questa falsa filosofa ebrea,sia riuscita ad essere nei programmi di economia di tutti i partiti politici dei Paesi occidentali. I neoliberisti sono così, si alzano lo stipendio ed aumentano le differenze sociali. I meno abbienti sono “parassiti” ed ogni cosa deve essere privatizzata. Ecco perché in USA le aziende di assicurazioni sanitarie hanno fatto profitti di miliardi, facendo morire le persone. Soltanto uno degli esempi.
Come in altri contesti culturali, anche qui c’è una vera e propria guerra in corso, una guerra, che pure in economia, ha un riflesso teologico molto profondo. È una guerra tra il bene ed il male. Alla fine, tra i seguaci del demonio, da una parte, ed i valori cristiani, dall’altra.Che si tratti di sostituzione etnica o di aumenti agli stipendi delle elites,facce della stessa medaglia, stiamo combattendo una guerra.