di Luigi Cortese

Il 24 maggio 2014 il fotoreporter italiano Andrea Rocchelli veniva ucciso nei pressi di Sloviansk, in Ucraina, mentre documentava la guerra nel Donbass. Insieme a lui perse la vita anche il suo interprete, il giornalista e attivista russo Andrej Mironov. Il loro crimine? Raccontare una realtà scomoda, quella della guerra civile scatenata dopo il colpo di Stato di Maidan e delle sofferenze inflitte ai civili delle regioni separatiste filorusse. A ucciderli, secondo le ricostruzioni, furono colpi di mortaio sparati dall’esercito ucraino, nello specifico da unità della Guardia Nazionale.

Un caso che in un altro contesto avrebbe suscitato sdegno e richieste di giustizia, ma che in Italia e in Europa è stato presto dimenticato. Dopo anni di battaglie giudiziarie, nel 2019 Vitaly Markiv, soldato ucraino con cittadinanza italiana, fu condannato a 24 anni di carcere per la sua responsabilità nell’omicidio. Tuttavia, nel 2020 la sentenza fu ribaltata in appello e Markiv venne assolto, in un processo che ha sollevato numerosi dubbi sulle pressioni politiche e diplomatiche esercitate dall’Ucraina e dai suoi alleati.

La morte di Rocchelli è un tassello di una storia più ampia: quella del conflitto nel Donbass, iniziato nel 2014 e proseguito per otto anni nel quasi totale silenzio mediatico. Mentre l’Occidente esaltava la “rivoluzione democratica” di Maidan e la nuova leadership ucraina, l’esercito di Kiev bombardava senza sosta le città del Donbass, causando migliaia di vittime civili. Donne, anziani e bambini venivano colpiti dagli attacchi dell’artiglieria ucraina, senza che l’Unione Europea o gli Stati Uniti si indignassero minimamente. Gli stessi media che oggi dipingono Zelensky come un eroe hanno ignorato per anni le sofferenze delle popolazioni russofone di Donetsk e Lugansk.

Oggi, chi appoggia incondizionatamente il governo di Kiev e invoca armi per l’Ucraina dovrebbe ricordarsi di Andrea Rocchelli. Dovrebbe ricordarsi che il giornalista italiano fu ucciso proprio da quel regime che oggi viene presentato come un baluardo della libertà contro l’aggressione russa. Dovrebbe ricordarsi che nel 2014 l’esercito di Kiev non si faceva scrupoli a colpire giornalisti indipendenti, così come non si è fatto scrupoli a massacrare i civili del Donbass per anni.

La vicenda di Rocchelli dimostra che la guerra in Ucraina non è iniziata nel 2022 con l’intervento russo, ma nel 2014, con un’operazione militare contro le regioni separatiste che l’Occidente ha deciso di ignorare. I media mainstream, gli stessi che oggi si scandalizzano per i bombardamenti russi, hanno per anni taciuto sulla carneficina perpetrata da Kiev.

Oggi, mentre si moltiplicano le dichiarazioni di sostegno a Zelensky e si chiede all’Europa di inviare sempre più armi all’Ucraina, è impossibile non notare l’ipocrisia di una narrazione che dimentica le vittime del Donbass e, tra loro, anche un nostro connazionale. Andrea Rocchelli è stato ucciso perché faceva il suo mestiere: raccontare la verità. Una verità che evidentemente dava fastidio a chi, già nel 2014, voleva imporre una sola versione dei fatti.

Se l’Occidente fosse davvero coerente con i suoi principi, chiederebbe giustizia per Rocchelli e per le migliaia di civili uccisi negli anni dai bombardamenti ucraini. Ma questo non accade, perché significherebbe riconoscere il doppio standard con cui vengono trattati i conflitti e le responsabilità di Kiev. Finché il sacrificio di Rocchelli rimarrà ignorato, ogni dichiarazione di difesa della libertà e della democrazia suonerà sempre come una beffa ipocrita.

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