di Simone D’Aurelio
La società contemporanea è totalmente immersa nell’era della divisione, si può notare infatti che viviamo una carenza di relazioni diffusa dove ognuno pensa per sé e cerca di realizzarsi in modo autonomo, non è un caso se abbiamo il trionfo dei monolocali, il boom delle conoscenze a breve termine e l’esplosione dei percorsi esistenziali in chiave individualistica (si pensi alla psicologia).
Quello che appare ancora più evidente è la solitudine morale: gli unici criteri limite sono dettati dal codice civile e penale e non dall’onore o dal senso etico comune. Seguendo questa scia ci viene mostrata di conseguenza una separazione anche nella sussidarietà dato che gli aiuti comunitari verso i ceti più deboli sono diventati dei servizi professionali che hanno creato una solidarietà di tipo meccanicistico. L’era della divisione però non finisce qui: è anche evidente la frammentazione del pensiero contemporaneo che separa l’atto dalla procreazione, il corpo dalla spirito, la vita pubblica da quella privata, le scelte individuali da quelle collettive, la concezione etica dalla morale, l’essere dal divenire, l’azione dalla persona.
Si sente la mancanza filosofica, conciliante, in grado di vedere l’insieme, sia in termini umani che in chiave politica, ed è evidente che in quest’ultimo campo il neoliberismo non riesce a creare unità e felicità; possiamo vedere infatti che proprio la sua caratteristica nozione di libertà slegata da ogni cosa (se non dai reticoli legislativi) è diventata una realtà storica che non riesce a creare dei legami sociali di valore. Un altro problema riguarda le azioni comunitarie: queste ormai sembrano essere utilizzate solo per questioni di marketing e di ritorno di immagine, come nel caso Ferragni. Un altro segnale importante è l’evoluzione dei servizi rivolti sempre di più verso il singolo, senza dimenticarci della lenta estinzione di qualsiasi istituzione e luogo che è simbolo della comunità, aspetti che ci mostrano sempre di più una realtà divisa. Quello che ci deve far riflettere è che l’uomo nasce con il bisogno di relazioni vere e significative, con la necessità di collaborare e con l’esigenza di confrontarsi, tre aspetti ormai decaduti perché il mondo turbocapitalista genera dei rapporti condizionati dagli interessi, un esistenza basata sulla
competizione e il culto dell’ego.
L’era della divisione però è anche una prigione dalle solide sbarre, dato che non consente mai di far passare dei messaggi collettivi e coerenti nella società e non riesce a creare unità di azione e di pensiero, di riflesso non nasce neanche una sana mentalità perchè l’esperienza antropologica risulta totalmente individualizzata. Per far finire tutto questo e uscire dalla reclusione bisogna tornare alle fondamenta della società, quindi bisogna guardare alla religione e alla fede, dato che stabilisce le coordinate alfa e omega del singolo e della collettività in termini assoluti. Si può contestare tutto questo postulando che la politica o il commercio sono i pilastri che possono unire (tesi marxista, o capitalista) ma sono obiezioni impotenti, dato che nessun sistema esclusivamente politico o economico può creare un unione tout court, organica e diffusa in ogni ambito della società.
L’unica possibilità per equilibrare ogni disciplina, qualsiasi scienza e i rapporti sociali è quella di integrare tutto con una realtà esterna, teologica, che non è manipolabile ed è in grado di assemblare e coordinare ogni parte del reale senza creare il predominio di una componente rispetto all’altra, o di un gruppo rispetto ad un altro.
Una società religiosa dialoga con i morti, con il tempo, con l’essere, con il significato, con l’etica, ma sopratutto parla con il singolo e con l’intera comunità essendo una realtà trascendente che abbraccia universalmente qualsiasi uomo,ogni condizione sociale e qualunque contesto storico.
La parola-chiave dell’era della divisione, così efficacemente descritta nell’articolo, è “solitudine”.
Strano, perché viviamo in città dove, anche a volerlo, non siamo mai soli: abitiamo in palazzi che sembrano formicai umani; le strade sono quasi sempre attraversate da passanti e gente che si sposta su auto e mezzi pubblici; i negozi e gli uffici sono percorsi da un flusso di persone che non rallenta mai; i supermercati, i ristoranti e i cinema sono pieni di avventori; c’è folla nelle scuole, nelle università, negli ospedali, nelle case di riposo, nei campi sportivi, nei lidi balneari… Con un ossimoro, potremmo dire di vivere in una “solitudine affollata”.
E’ chiaro che non stiamo parlando di una solitudine fisica, ma di una solitudine psicologica, morale e spirituale che ci fa sentire come monadi senza porte e senza finestre, incapaci di comunicare con gli altri se non a un livello estremamente superficiale e inappagante; una solitudine che rende la nostra società simile a un branco di ovini, nel quale, mentre uno soccombe all’attacco del predatore, gli altri si limitano a trotterellare un po’ più in là e a brucare l’erba nel proprio angolino, fino a che la morte non avrà afferrato anche loro.
Potremmo chiederci se, sia pur in vesti diverse, non sia stato sempre così, se questo disperante isolamento, in fondo, non sia altro che la condizione esistenziale dell’uomo in qualsiasi epoca e a qualunque latitudine. Io credo di no. La perdita del calore umano e il venir meno della solidarietà sono frutto di filosofie che nel corso del tempo hanno preso il sopravvento. Sebbene il mondo antico non fosse esente da terribili brutture e la civiltà cristiana fosse tutt’altro che perfetta, sia l’uno che l’altra continuano a parlarci, ad affascinarci, perché fondati su solidi valori. Ed è proprio contro di essi che si è levato, auspicando un’inversione culturale, il grido di Nietzsche “Dio è morto”, che tanto piace ai nostri intellettuali à la page. Ma prima ancora del nichilismo nietzschiano, l’Occidente aveva già tentato di detronizzare Dio e sostituire i valori tradizionali, sui quali si era costruita l’Europa, con lo stato leviatanico, poi con il mito del libero mercato e infine con il culto della scienza e della tecnologia. Un forte impulso al cambiamento sociale è giunto anche dal relativismo, per il quale non esiste una verità oggettiva ma solo una verità “secondo me”. In ambito cattolico, un ruolo particolarmente eversivo lo ha svolto il modernismo. Sorto nell’ultimo decennio del XIX secolo con l’intento dichiarato di adeguare la rivelazione cristiana alle correnti filosofiche, sociali e politiche dei tempi moderni, tale movimento fu condannato come eretico da papa Pio X nel 1907, ma purtroppo trova oggi ampio seguito, anche se sotto mentite spoglie, in ambienti teologici ed ecclesiastici. Alla lista (necessariamente incompleta) delle filosofie contrapposte alla tradizione non può mancare il progressismo. Pienamente sposato dalla “politica di sinistra”, esso si pone come un camaleonte ideologico, che spazia dal socialismo totalitario al più sfrenato liberismo, e, tramite i suoi correlati (woke, gender, green, transumanesimo ecc.), funge da estremo acceleratore della dissoluzione dell’identità personale e sociale.
Possiamo continuare sul sentiero della modernità, possiamo proseguire lungo la via che porta all’abisso, oppure, come suggerisce D’Aurelio, armati di fede e ragione, possiamo riprendere la strada di casa facendoci guidare dal richiamo dell’Essere. A noi la scelta.
Questa e’ l’ era in cui il “significato” delle proprie azioni non solo è distrutto, ma se si prova a suggerirlo esso viene categoricamente rifiutato.
Perché ad un popolo servono dei politici ingiusti, guerrafondai, totalitari, umilianti e carnefici: senza dolore non si apprende.
In Europa, e forse in maggior misura in Italia, le persone si sono posizionate sopra tutto e tutti, l’atmosfera è costituita da arroganza, e questo con tutto ciò che ne consegue.
Senza atroci sofferenza non si apprezza l’essenziale, non si cresce e non impariamo.
Mentre solo l’umiltà rende tutto possibile.
Gli italiani che hanno smesso di lavorare, di sentirsi e comportarsi da semplici persone sono, una prova vivente.
Solo una crisi ci può salvare.