di Gaetano Ferreri

C’era una volta…

Anzi no. Oggi non può più iniziare così. “C’era una volta” è una frase troppo stereotipata, potenzialmente sessista, binaria, colonialista e sicuramente offensiva per qualche sottocultura ancora non catalogata. Meglio dire: “In un tempo privo di struttura narrativa e sovradeterminato da politiche identitarie…

Ecco, adesso possiamo cominciare a raccontare la vera favola: quella del declino della Disney, dell’assalto ideologico alla creatività e del live action di Biancaneve, l’ultimo atto tragicomico di un colosso che un tempo faceva sognare e oggi fa… discutere. E sbadigliare.

La Disney di una volta: sogni, magia e maiali volanti (di successo) Facciamo un salto indietro

Walt Disney era un visionario. Non un attivista, non un predicatore, ma uno che sapeva raccontare storie. Sapeva che le fiabe sono metafore potenti, e che il bello del racconto è proprio la sua capacità di sfiorare le corde dell’anima con leggerezza e profondità insieme. I suoi film parlavano di amore, coraggio, sacrificio, crescita. La Biancaneve del 1937, il primo lungometraggio animato della storia, è un monumento. Una rivoluzione. Un gioiello che ha ispirato intere generazioni.

Ma oggi, tutto questo non basta più. Anzi, è diventato sospetto.

Woke e rovina: come distruggere un’industria in nome della superiorità morale

Negli ultimi anni, Hollywood — e Disney in particolare — ha abbracciato con fervore quasi religioso la cosiddetta cultura “woke“. Ma cos’è, precisamente? In teoria, si tratta di una presa di coscienza sociale: inclusività, uguaglianza, attenzione alle minoranze. Niente di male, anzi, se parliamo di valori universali e buonsenso. Ma il problema nasce quando questa ideologia diventa un dogma, una lista di controllo, un filtro che precede qualsiasi decisione creativa.

Ed è qui che il gioco si rompe. Perché se la tua priorità, quando scrivi una sceneggiatura o scegli un attore, è evitare di “offendere qualcuno”, allora il tuo film non sarà né offensivo né memorabile. Sarà neutro. Sterile. Noioso. Ma politicamente corretto, ed è questo che conta per chi vive a pane e approvazione social.

Biancaneve live action: il remake che non voleva essere Biancaneve

Passiamo alla protagonista del nostro racconto: il remake live action di Biancaneve. Un progetto nato già zoppo, concepito più come esperimento ideologico che come omaggio a un classico. La prima cosa che salta all’occhio? Biancaneve… non è Biancaneve. Non perché sia interpretata da un’attrice diversa da quella del cartone (ci mancherebbe!), ma perché lo è con la pretesa che la fedeltà al personaggio sia un crimine culturale. Rachel Zegler è una cantante e attrice promettente, ma anche simbolo perfetto di questa nuova tendenza: un casting pensato non per somigliare al personaggio, ma per contrastarlo.

E lei, dal canto suo, ha rincarato la dose: dichiarazioni pubbliche in cui dice che la vecchia Biancaneve “era passiva”, che “non sognava altro che un uomo”, e che il nuovo film “sarà una storia femminista”. Ecco, qui c’è il cuore del problema: non è più un adattamento, ma una rettifica. Non si racconta una fiaba, si corregge una favola “sbagliata”. E così, tra una lezione e l’altra, ci si dimentica di emozionare.

Il principe? Cancellato. I nani? Pure peggio. Il pubblico? Sempre più confuso

Il principe azzurro, figura chiave della fiaba classica? Tagliato o ridotto al ruolo di comparsa colpevole di “salvataggio non richiesto“. In un’intervista, la produzione ha dichiarato di voler “evitare l’idea tossica che una donna abbia bisogno di un uomo”.

E certo. Perché mica stiamo raccontando una fiaba, stiamo facendo un TED Talk sul gender fluid.

I sette nani? Sostituiti con un gruppo di individui genericamente variopinti (in tutti i sensi), scelti con il preciso intento di non rappresentare “stereotipi sull’altezza”. Risultato: non solo non sono nani, ma neanche memorabili. Una banda di personaggi talmente generici da sembrare usciti da un algoritmo di inclusività.

A questo punto, la vera domanda è: se togli Biancaneve, il principe, i nani, e la fiaba stessa… che cos’è rimasto?

Dialoghi da manuale, non da fiaba

Il copione sembra scritto da un ufficio legale con il terrore delle polemiche online. Frasi motivazionali da cioccolatino, battute censurate dall’autenticità e monologhi in stile “influencer che ha appena letto un libro sulla leadership femminile”. Non c’è spazio per il cuore, solo per l’agenda.

Certo, ci sono momenti visivamente affascinanti, musiche ben orchestrate, ma tutto appare come una bella vetrina… con dentro manichini. Lucido, impeccabile, ma freddo. Vuoto.

Disney: dal sogno americano al manifesto ideologico

Ciò che rende questa parabola ancora più triste è proprio il fatto che stiamo parlando della Disney. Un impero che ha costruito l’immaginario di miliardi di persone, e che oggi pare più interessato a evitare le critiche su Twitter che a creare nuovi classici.

L’infantilizzazione della cultura — dove ogni favola viene riscritta per essere moralmente irreprensibile — è il segno di un’industria che ha paura di offendere e, nel farlo, smette di osare. Ma le fiabe, quelle vere, non sono mai state perfette. Sono allegorie, racconti simbolici, a volte anche spaventosi. Ed è proprio per questo che restano impressi.

I (molti) difetti del film: una lista più lunga del curriculum di un influencer

  • Scelte narrative scollegate dalla fiaba originale: si fa prima a dire che è un’altra storia. Che però si chiama ancora Biancaneve, giusto per richiamare pubblico.
  • Mancanza totale di chimica e pathos: i personaggi sembrano recitare sotto minaccia, e nessuno sembra realmente credere a quello che dice.
  • Umorismo assente: ironia sostituita da sarcasmo stanco e politically correct. Risate? Solo quelle amare.
  • Effetti speciali anonimi: tutto patinato, tutto digitale, ma senza incanto.
  • Messaggi troppo espliciti e martellanti: più che una fiaba, una lezione di sociologia travestita da musical.

Conclusione: la magia non vive nei protocolli

La verità è semplice. Le fiabe non hanno bisogno di essere corrette. Hanno bisogno di essere amate, reinterpretate con rispetto, non piegate alle mode. Il problema non è l’inclusività —è l’imposizione. Non è la diversità — è la forzatura. Non è l’evoluzione delle storie — è la loro negazione.

E se la Disney continuerà a trattare il suo pubblico come un gruppo di allievi in un corso di rieducazione culturale, invece che come sognatori in cerca di emozioni, allora il vero lieto fine sarà quello in cui il pubblico smette di guardare.

Nel frattempo, Biancaneve resta lì, intrappolata in un film che porta il suo nome ma non la sua anima. E forse, in fondo, spera solo che arrivi qualcuno a risvegliarla. Ma niente principe, sia chiaro. Al massimo… un produttore con un po’ di buon senso.

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