Questa sera, alle 22:00 ora italiana, il presidente Donald Trump presenterà ufficialmente il nuovo pacchetto di dazi che segnerà la linea economica del suo secondo mandato. La sua strategia, già sperimentata durante la prima presidenza (2017-2021), si basa su una politica protezionistica volta a riportare la produzione industriale negli Stati Uniti, contrastando la dipendenza dalle importazioni straniere.
Trump e i nuovi dazi: protezionismo e reshoring
Già durante il suo primo mandato, Trump aveva imposto dazi su centinaia di miliardi di dollari di merci cinesi e su prodotti europei, canadesi e messicani, con l’obiettivo dichiarato di riequilibrare il commercio globale a favore degli Stati Uniti. Con la sua rielezione, il presidente ha deciso di rilanciare questa strategia, imponendo nuove tariffe doganali che verranno dettagliate questa sera.
L’obiettivo rimane lo stesso: rendere più conveniente per le aziende produrre negli Stati Uniti piuttosto che all’estero. Secondo Trump, il protezionismo doganale non è una misura punitiva, ma un incentivo per il reshoring industriale.
Biden e il parallelo con gli incentivi all’industria
Nonostante l’apparente contrapposizione tra le politiche di Trump e Biden, entrambi i presidenti hanno perseguito un obiettivo comune: il ritorno della produzione manifatturiera negli USA. Biden, pur non adottando un protezionismo aggressivo, ha puntato su incentivi economici e investimenti pubblici per attrarre la produzione interna.
Con il CHIPS and Science Act e l’Inflation Reduction Act, l’ex presidente democratico aveva stanziato miliardi di dollari per stimolare la produzione di semiconduttori e veicoli elettrici negli Stati Uniti. Tuttavia, l’approccio di Biden si è basato su finanziamenti diretti e sussidi pubblici, mentre Trump preferisce una strategia basata su tariffe e sgravi fiscali.
Due strategie diverse, ma simili negli obiettivi
Mentre Biden cercava di rendere l’America più competitiva tramite incentivi finanziati dallo Stato, Trump punta su un metodo di pressione economica che non grava direttamente sulle casse pubbliche. Entrambi, però, mirano a ridurre la dipendenza industriale dagli approvvigionamenti esteri e a favorire la creazione di posti di lavoro negli USA.
Con l’annuncio di questa sera, si capirà meglio l’entità delle nuove tariffe doganali e il loro impatto sulle catene di approvvigionamento globali. Tuttavia, ciò che appare chiaro è che la strategia economica di Trump, pur con metodi differenti, prosegue nel solco di una politica di rilancio industriale già vista sotto Biden, segnalando una sostanziale continuità negli obiettivi economico-finanziari tra le due amministrazioni.
Una lezione anche per l’Europa ed il Canada, che, in tutti questi anni hanno fatto i calabrache verso gli USA.
Un esempio è l’acquisto degli F35 da parte del Canada, Portogallo e Danimarca. Ora starebbero ripensando i loro contratti. Il Portogallo, in particolare, si opporrebbe all’acquisto di un aereo, che può essere spento dagli USA a distanza e reso inutilizzabile.
Anni ed anni di sudditanza ed acquiescienza a lobbies di Oltreoceano con mazzette e politici, che fanno i lobbisti delle aziende USA,magari facendo accettare anche ciò che in realtà è considerato un fallimento, proprio come l’F35. La stessa SAAB aveva denunciato una scelta imparziale da parte di ufficiali e politici canadesi nei contratti in favore degli USA.
Quanto alla strategia di Trump o delle amministrazioni americane per favorire una produzione interna,questa può essere una scelta legittima, ma il modo con cui viene portata avanti, può provocare un aggravamento delle condizioni dell’economia interna. Una scelta che dovrebbe realizzarsi nel lungo termine, ma con ripercussioni gravi nel breve e medio termine. L’industria USA o occidentale non ha neppure le capacità di adattamento e di trasformazione tipica dei Paesi asiatici. Queste trasformazioni le abbiamo viste soltanto durante la Seconda Guerra Mondiale e dopo la Seconda Guerra Mondiale con la famosa strategia di conversione e riconversione dell’industria americana.
Le politiche neoliberiste e la globalizzazione, che, tra l’altro, è partita proprio dagli USA, ha fatronin modo di delocalizzare le produzioni nazionali all’estero. La stessa Apple, che è americana, ha aziende in Cina.
L’altra questione importante è lo scontro per le “materie prime rare”. La Cina ne ha il monopolio, e con questo il controllo dell’industria tecnologica e digitale globale. Proprio le sanzioni e i dazi USA contro la Cina degli anni passati, hanno in realtà aiutato la Cina a riconvertire le proprie aziende tecnologiche, come Huawei, riuscendo queste a costruire i microchip, che, prima delle sanzioni, erano di produzione statunitense e la Cina doveva acquistarle dagli USA. Ora Huawei fabbrica microchip migliori di quelli statunitensi con l’uso delle nanotecnologie.
Le mire degli USA verso la Groenlandia e gli accordi con l’Ucraina sulle famose “terre rare”, vede proprio queste problematiche. Gli USA vogliono assicurarsi una indipendenza sui minerali rari per l’industria tecnologica. Per raggiungere questo scopo, funzionale alla produzione interna USA, si possono intravedere strategie diplomatiche o addirittura nuove forme di guerra da parte degli Stati Uniti.
Senza una indipendenza sui minerali rari, l’industria americana non potrà mai essere totalmente indipendente.
Anche i recenti scontri in Myanmar, la stessa del recente terremoto, dove la Cina rischia di perdere influenzana a causa di ribelli sostenuti da fuori , vede il problema delle terre ed i “minerali rari” , che sono vitali per l’economia e di cui la Cina detiene per il momento il monopolio globale.
L’Europa, invece, non conta nulla e, per il momento, vive delle conseguenze dell’essere e dell’essere stata prona degli interessi della finanza angloamericana.
Il fatto che altre nazioni comprino un aereo che può essere spento a distanza dai padroni con un bottone, è comico.
Concordo con l’analisi di Cortese: i sussidi pubblici alle industrie nazionali e i dazi sulle merci importate sono entrambe misure protezionistiche, in barba al tanto decantato liberismo (a dimostrazione di quanto la realtà possa differire dal modo in cui viene rappresentata).
Visto che il nuovo pacchetto di dazi statunitensi ci riguarda direttamente, mi sembra interessante soffermarmi su quello che ha fatto, o meglio, che non ha fatto il nostro governo. Innanzitutto, l’Italia avrebbe dovuto concordare con le autorità statunitensi un pacchetto di cooperazione economica in grado di consentire all’economia italiana di compensare, o perlomeno minimizzare, le ripercussioni negative di una guerra commerciale tra Stati Uniti e Unione Europea, facendo né più né meno quello che ha fatto Orban per il suo paese. Ma, evidentemente, il sovranismo di cartone della signora Meloni non contempla un’opzione così sgradita all’euroburocrazia.
In effetti, la politica commerciale e tariffaria comune è lo scopo per cui è nata l’Unione Europea e, come suo organo di controllo e d’indirizzo, la Commissione Europea. Se anche altri paesi della UE seguissero l’esempio dell’Ungheria, questo porterebbe alla disintegrazione della sovrastruttura europea. E’ logico aspettarsi che i funzionari di Bruxelles facciano di tutto per mantenere il loro potere ed evitare tali processi centrifughi. Come minimo, Budapest sarà soggetta a pesanti multe per aver creato delle preferenze per i suoi prodotti all’interno della UE. Inoltre, Bruxelles cercherà di privare l’Ungheria del diritto di voto in sede europea per violazione delle norme fondamentali. Ma una punizione eccessiva renderebbe chiaro anche ai più eurofanatici che la UE non è un’associazione che fa l’interesse dei paesi membri, ma è solo uno strumento per opprimerli e impoverirli a vantaggio di una casta non eletta di parassiti. Se poi si considera la sua manifesta incapacità di combattere su due fronti (commercialmente contro l’America e, in prospettiva, militarmente contro la Russia), la fine del sogno europeo, rivelatosi un incubo, è un destino segnato.
Che arrivi presto il giorno in cui quello straccetto blu con le stelline gialle verrà tolto dagli edifici pubblici e messo nel posto che più gli si addice: il cassonetto dei rifiuti.