di Luigi Cortese

Il Decreto Sicurezza 2025, approvato nelle scorse settimane, segna una svolta importante nelle politiche di sicurezza italiane. Ma è l’Articolo 31 a catalizzare l’attenzione di giuristi, analisti e opinione pubblica. Si tratta di una norma che, pur rientrando nelle strategie di contrasto al terrorismo e all’eversione, apre scenari delicati e controversi. Per la prima volta, il nostro ordinamento prevede esplicitamente che operatori dei servizi segreti possano infiltrarsi, e persino assumere ruoli attivi o direttivi all’interno di organizzazioni eversive o terroristiche, nel quadro di operazioni preventive.

Una misura di questo tipo, se non adeguatamente bilanciata da strumenti di controllo, rischia di spostare il confine tra prevenzione e compromissione del principio di legalità, con potenziali ricadute sull’equilibrio tra sicurezza e democrazia.

Operazioni coperte e partecipazione attiva: il nodo normativo

È noto che i servizi di intelligence, per essere efficaci, si avvalgano di operazioni coperte. Tuttavia, l’Articolo 31 va oltre la semplice infiltrazione: consente, in circostanze definite, la possibilità di dirigere strutture illegali, anche se con finalità esclusivamente preventive. Questo solleva una questione centrale: quali garanzie esistono affinché queste azioni non sfuggano al controllo democratico?

Gli esperti invitano alla prudenza: “Quando lo Stato autorizza un proprio agente a commettere atti altrimenti illeciti, anche a fini superiori, è fondamentale che ci sia un sistema di vigilanza esterno, trasparente e indipendente”, sottolinea un giurista interpellato dalla redazione.

Servizi e potere: una zona d’ombra senza sufficienti contrappesi?

La legittimazione di condotte potenzialmente gravi, come la detenzione di esplosivi o la propaganda terroristica a fini investigativi, introduce una zona grigia normativa, dove il confine tra azione istituzionale e abuso di potere può farsi sottile.

Senza mettere in discussione l’integrità delle strutture preposte, è doveroso chiedersi cosa potrebbe accadere in caso di comportamenti devianti da parte di soggetti interni ai servizi stessi. Anche solo in via ipotetica, un agente non fedele al mandato democratico potrebbe sfruttare le prerogative offerte dalla legge per fini distorti, agendo senza adeguati controlli.

Il rischio, quindi, non è solo teorico, ma sistemico: si tratta di un equilibrio estremamente delicato, in cui lo Stato si assume la responsabilità di “sfidare” il proprio stesso ordinamento per difendersi.

Controlli, privacy e libertà civili: la preoccupazione delle associazioni

L’Articolo 31 prevede inoltre la collaborazione obbligatoria da parte di enti pubblici e privati con i servizi di intelligence, incluse università, concessionari di servizi pubblici e aziende statali. Questo ha sollevato preoccupazioni tra le organizzazioni civiche e per i diritti digitali, che vedono in questa norma un possibile vulnus alle libertà individuali e al diritto alla riservatezza.

Anche il fronte parlamentare si è diviso: se da un lato il Governo difende la necessità della norma per contrastare minacce sempre più sofisticate, dall’altro alcune forze dell’opposizione invocano maggiori garanzie e un controllo più incisivo da parte del Parlamento.

Democrazia e sicurezza: serve un nuovo equilibrio

Il punto di fondo resta aperto: può una democrazia cedere parte del suo impianto garantista in nome della sicurezza, senza mettere a rischio se stessa? E soprattutto, esistono oggi in Italia meccanismi di controllo e trasparenza in grado di monitorare efficacemente l’utilizzo di questi nuovi strumenti?

La discussione è ancora aperta, e merita di essere affrontata con attenzione, senza forzature ideologiche ma con la consapevolezza che le leggi pensate per proteggerci non devono diventare strumenti che ci espongono a nuovi pericoli, meno visibili ma più profondi.

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