Anche quest’anno, partecipando al Salone del Libro di Torino, ho respirato quell’aria familiare che si ripete a ogni edizione: la promessa di pluralismo e confronto, smentita puntualmente da un clima in cui la libertà d’espressione esiste solo per chi si muove entro binari ben accettati.
Non è colpa dell’organizzazione del Salone, che continua a proporre un programma culturale ricco e variegato. Il problema è esterno, ma presente e attivo dentro i padiglioni: una rete di gruppi ben organizzati, capaci di condizionare il dibattito, orientare il consenso, e silenziare chi non è allineato. Sono loro, e non la direzione dell’evento, a imporre ogni anno uno schema ideologico fisso e impermeabile.
Nel Salone 2025 ho assistito alla solita dinamica: ampio spazio dato a posizioni che si presentano come “alternative” – spesso provenienti dalla sinistra radicale o da ambiti anarchici – ma che in realtà rappresentano un dissenso costruito, addomesticato, funzionale al sistema stesso, perché serve a convogliare e neutralizzare ogni critica reale. È una ribellione estetica, non sostanziale, perfettamente compatibile con l’ordine culturale dominante.
Fuori dai padiglioni, anche quest’anno, non sono mancate le proteste. In particolare, manifestazioni legate alla causa palestinese hanno cercato di imporsi con la forza, con momenti di tensione e scontri con la polizia. E qui voglio essere molto chiaro: io stesso sono da sempre a favore del popolo palestinese, della sua autodeterminazione, della fine dell’occupazione e delle violenze subite. Ma quello a cui ho assistito non aveva nulla a che fare con un autentico sostegno alla Palestina.
Quelle manifestazioni erano il solito copione messo in scena dai gruppi antagonisti torinesi, noti da anni per saper strumentalizzare ogni causa nobile per farne una vetrina di odio, aggressività e propaganda ideologica. Non parlano a nome del popolo palestinese, ma a nome proprio, e approfittano della sensibilità collettiva per farsi spazio e legittimare il proprio radicalismo.
Nel frattempo, dentro il Salone, nessuno spazio per un dissenso vero, non controllato. Nessuna voce critica fuori dal perimetro consentito. Se provi a portare una visione che disturba davvero l’equilibrio ideologico vigente, vieni ignorato o attaccato. E mentre il dissenso addomesticato viene coccolato e persino celebrato, quello autentico, trasversale, non etichettabile, viene escluso.
Il Salone del Libro dovrebbe essere un luogo dove tutte le voci possono essere ascoltate, dove il confronto sia reale, e non solo una finzione ben confezionata. E invece, ogni anno, si rafforza l’idea che tutto sia ammesso, purché sia funzionale a un certo schema ideologico.
Chi davvero ama la libertà, la Palestina, la cultura, il confronto, dovrebbe preoccuparsi di questa deriva. Perché la cultura, quando smette di ascoltare davvero, diventa solo un apparato di legittimazione del potere. E in quel caso, il vero dissenso è stare fuori dal coro – anche quando costa caro.
Sono quasi ottant’anni che nel nostro Paese gli intellettuali di sinistra se la suonano e se la cantano da soli, senza contradditorio, pressoché in regime di monopolio. Da bravi discepoli di Gramsci, hanno occupato le casematte della cultura e dell’intrattenimento, hanno scritto e imposto libri di testo nelle scuole e nelle università, sono entrati nelle redazioni dei giornali e delle riviste che contano. Certo, nessuno di loro parla più di liberare i lavoratori dallo sfruttamento di classe, di dare l’ultima spallata alla lercia borghesia e di fare la rivoluzione comunista. Oggi parlano di immigrazione (nel senso che non ce n’è mai abbastanza) e di una gamma sempre più ampia (ma quasi sempre riferibile al basso ventre) di diritti civili. Ed è tutto sommato divertente vedere come digrignino i denti e schiumino rabbia se c’è chi gli fa notare che abbattere le frontiere per avere “l’esercito industriale di riserva dei disoccupati” è nella logica del (un tempo odiato) capitalismo, o se qualcuno gli dice in faccia che ammazzare il figlio nella pancia della madre non è un diritto ma un delitto, o se qualcun altro ironicamente osserva che non è poi questo gran progresso veder Fabio diventare Fabiola tramite la riassegnazione del sesso!
Ma c’è qualcosa che accomuna i Saviano, i De luca (Erri), gli Scurati, i Carofiglio e compagneria varia alla vecchia guardia marxista: il jolly dell’antifascismo. E questo chiama direttamente in causa la Destra italiana.
Fratelli d’Italia (ex Msi, ex An, ex PdL), non avendo mai fatto veramente i conti con l’ingombrante questione del fascismo, ma illudendosi di averla liquidata per via urinaria (congresso di Fiuggi del 1995), ha dei ministri e parecchi assessori letteralmente paralizzati dalla paura di essere definiti “fascisti”. Mettere su un convegno, pubblicizzare un libro, proiettare un film, organizzare il concerto di un gruppo musicale, allestire una mostra d’arte o promuovere un qualsiasi evento culturale che sia anche solo lontanamente e pretestuosamente associabile al fascismo, provoca nei fratellini d’Italia uno stress insopportabile e, alla fine, lasciano perdere. “Eh, signora mia, lei non lo sa, ma le sinistre non aspettano altro che accusarci di essere fascisti e magari sguinzagliarci contro quei bruttoni dei centri sociali! E poi che ne sarà della nostra rispettabilità? Cosa dirà la grande stampa? Cosa dirà la von der Leyen? Cosa dirà mio cugino?”. Ecco qual è il problema: abbiamo una Destra che fa schifo e che è culturalmente succube dei progressisti!