di Luigi Cortese

Anche quest’anno, partecipando al Salone del Libro di Torino, ho respirato quell’aria familiare che si ripete a ogni edizione: la promessa di pluralismo e confronto, smentita puntualmente da un clima in cui la libertà d’espressione esiste solo per chi si muove entro binari ben accettati.

Non è colpa dell’organizzazione del Salone, che continua a proporre un programma culturale ricco e variegato. Il problema è esterno, ma presente e attivo dentro i padiglioni: una rete di gruppi ben organizzati, capaci di condizionare il dibattito, orientare il consenso, e silenziare chi non è allineato. Sono loro, e non la direzione dell’evento, a imporre ogni anno uno schema ideologico fisso e impermeabile.

Nel Salone 2025 ho assistito alla solita dinamica: ampio spazio dato a posizioni che si presentano come “alternative” – spesso provenienti dalla sinistra radicale o da ambiti anarchici – ma che in realtà rappresentano un dissenso costruito, addomesticato, funzionale al sistema stesso, perché serve a convogliare e neutralizzare ogni critica reale. È una ribellione estetica, non sostanziale, perfettamente compatibile con l’ordine culturale dominante.

Fuori dai padiglioni, anche quest’anno, non sono mancate le proteste. In particolare, manifestazioni legate alla causa palestinese hanno cercato di imporsi con la forza, con momenti di tensione e scontri con la polizia. E qui voglio essere molto chiaro: io stesso sono da sempre a favore del popolo palestinese, della sua autodeterminazione, della fine dell’occupazione e delle violenze subite. Ma quello a cui ho assistito non aveva nulla a che fare con un autentico sostegno alla Palestina.

Quelle manifestazioni erano il solito copione messo in scena dai gruppi antagonisti torinesi, noti da anni per saper strumentalizzare ogni causa nobile per farne una vetrina di odio, aggressività e propaganda ideologica. Non parlano a nome del popolo palestinese, ma a nome proprio, e approfittano della sensibilità collettiva per farsi spazio e legittimare il proprio radicalismo.

Nel frattempo, dentro il Salone, nessuno spazio per un dissenso vero, non controllato. Nessuna voce critica fuori dal perimetro consentito. Se provi a portare una visione che disturba davvero l’equilibrio ideologico vigente, vieni ignorato o attaccato. E mentre il dissenso addomesticato viene coccolato e persino celebrato, quello autentico, trasversale, non etichettabile, viene escluso.

Il Salone del Libro dovrebbe essere un luogo dove tutte le voci possono essere ascoltate, dove il confronto sia reale, e non solo una finzione ben confezionata. E invece, ogni anno, si rafforza l’idea che tutto sia ammesso, purché sia funzionale a un certo schema ideologico.

Chi davvero ama la libertà, la Palestina, la cultura, il confronto, dovrebbe preoccuparsi di questa deriva. Perché la cultura, quando smette di ascoltare davvero, diventa solo un apparato di legittimazione del potere. E in quel caso, il vero dissenso è stare fuori dal coro – anche quando costa caro.

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