In un’Italia dove oltre 5,6 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà, dove pensionati sopravvivono con assegni minimi e famiglie fanno i conti con il caro vita anche per mettere insieme un pasto decente, lo Stato continua — incredibilmente — a destinare fondi pubblici a chi ne ha meno bisogno. È il caso dei Måneskin, la band italiana di fama internazionale che ha ricevuto oltre 37.000 euro in contributi pubblici tramite la loro società, la Maneskin Empire Srl.
Due contributi a fondo perduto da 17.524 euro ciascuno e un ulteriore sconto IRAP da 2.271 euro, erogati dall’Agenzia delle Entrate nell’ambito dei provvedimenti post-pandemici. Tutto regolare, certo. Ma la legalità di un meccanismo non ne garantisce automaticamente la legittimità morale. E questa, francamente, appare sempre più compromessa.
Com’è possibile che risorse pubbliche vengano distribuite senza un minimo di selezione in base al reale bisogno? Com’è accettabile che un gruppo musicale che fattura milioni, che si esibisce in tournée globali, che ha firmato contratti multimilionari, possa accedere agli stessi aiuti pensati per negozianti, lavoratori autonomi e piccoli imprenditori sull’orlo del fallimento?
In un Paese che vuole definirsi equo e solidale, gli aiuti devono andare a chi è in difficoltà, non a chi riempie le cronache mondane.
Il caso Måneskin è solo la punta dell’iceberg di una gestione opaca degli aiuti di Stato, che non tiene conto della reale condizione economica dei beneficiari. Se il criterio è il reddito dell’azienda e non la disponibilità patrimoniale reale, allora qualcosa non funziona. E non da oggi.
La legge di bilancio 2025, pur introducendo misure per i redditi bassi, non ha ancora risolto questo paradosso. La conseguenza è che mentre i più fragili restano in attesa di sussidi minimi, i milionari incassano, in silenzio, anche ciò che non gli spetta eticamente.
Uno Stato serio non aiuta i milionari. Aiuta i suoi figli più poveri. Quelli che ogni giorno fanno sacrifici veri, spesso invisibili. Quelli che non hanno un ufficio stampa né copertine patinate, ma che continuano a credere — spesso ingenuamente — che lo Stato sia dalla loro parte.
E invece, a volte, è solo un amplificatore stonato delle disuguaglianze.