di Luigi Cortese

Con un attacco militare su larga scala lanciato nella notte, Israele ha compiuto un atto che molti osservatori definiscono senza mezzi termini una provocazione deliberata destinata ad alimentare un’escalation incontrollabile. A essere colpiti sono stati obiettivi chiave all’interno del territorio iraniano: basi militari, centri di comando delle Guardie Rivoluzionarie, e persino il noto impianto nucleare di Natanz.

Il bilancio iniziale è drammatico: decapitata parte della leadership militare iraniana, tra cui il comandante dei Pasdaran, Hossein Salami, e il capo di stato maggiore Mohammad Bagheri. La risposta iraniana, con un contrattacco massiccio tramite droni, era prevedibile. Ma è Israele ad aver scelto consapevolmente di varcare una soglia pericolosissima.

Un’aggressione mascherata da difesa

Tel Aviv giustifica l’operazione come “preventiva”, accusando l’Iran di voler costruire armi nucleari. Ma le prove, come sempre, restano nebulose, mentre la tempistica dell’attacco – chirurgica, strategica e comunicativamente orchestrata – suggerisce altro: una precisa volontà di trasformare la tensione regionale in una guerra aperta.

Il pretesto della “difesa nazionale” risulta sempre più una foglia di fico dietro cui si nasconde un progetto egemonico: annientare qualsiasi influenza iraniana nella regione, anche a costo di distruggere equilibri già fragili e mettere a rischio milioni di vite umane. Colpire un sito nucleare attivo come Natanz non è un gesto difensivo: è una mossa da guerra totale.

Un disegno pericoloso e irresponsabile

Il governo israeliano, guidato da Benjamin Netanyahu, ha ormai assunto una postura che molti analisti definiscono avventurista e fuori controllo. Non solo ha scelto di attaccare uno Stato sovrano senza un mandato internazionale, ma ha deliberatamente colpito infrastrutture civili sensibili, aprendo la strada a conseguenze potenzialmente catastrofiche.

Non esiste alcuna giustificazione razionale per un’operazione che, oltre a essere un atto di guerra, rischia di innescare un conflitto su scala globale. Colpire un Paese con capacità militari avanzate, supportato da una rete regionale di alleati e milizie, significa solo una cosa: cercare il caos.

E il caos può sfuggire di mano. Già si parla di reazioni in Siria, Libano, Iraq e Yemen. Le grandi potenze osservano, allertate. Ma chi ha premuto il primo grilletto, con premeditazione e strategia, è Israele.

La retorica della minaccia nucleare: una copertura?

Da anni Israele agita lo spettro dell’Iran nucleare. Ma paradossalmente, Tel Aviv rimane l’unica potenza nucleare non dichiarata della regione, fuori dal Trattato di non proliferazione, e con un arsenale atomico opaco e mai ispezionato. Questo doppio standard mina ogni credibilità della narrativa israeliana.

La vera domanda da porsi oggi è: sta Israele cercando di scatenare un conflitto più ampio, magari con l’obiettivo di trascinare alleati occidentali in una guerra che nessuno ha chiesto, tranne Tel Aviv?

Conclusione: una scelta folle e pericolosa

La scelta del governo israeliano di bombardare l’Iran, colpendo centrali nucleari e uccidendo vertici militari, è un atto di guerra senza scusanti. È il gesto di un governo che ha deciso, unilateralmente, di mettere il Medio Oriente e il mondo sull’orlo di un disastro.

Non è più tempo di ambiguità: l’attacco del 13 giugno è un atto irresponsabile, aggressivo e pericoloso per tutta l’umanità. Ogni ora che passa senza una risposta diplomatica globale aumenta il rischio che le fiamme accese da Israele si trasformino in un incendio mondiale.

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