di Mattia Taricco

Negli ultimi anni, il Burkina Faso è emerso come uno dei simboli della nuova ondata panafricanista che attraversa l’Africa occidentale. Al centro di questo cambiamento c’è il giovane leader militare Ibrahim Traoré, salito al potere nel 2022 dopo un colpo di Stato e divenuto figura chiave di una nuova visione politica e socioeconomica per il Paese. Il suo progetto è chiaro: sottrarre il Burkina Faso all’influenza neocoloniale e costruire un’economia sovrana, centrata su nazionalizzazioni strategiche e sul progressivo disimpegno dai circuiti bancari internazionali.

Traoré ha intrapreso una politica di nazionalizzazioni che riguarda in particolare il settore minerario, cuore economico del Burkina Faso. Il Paese è tra i principali produttori d’oro dell’Africa, ma per decenni le ricchezze del sottosuolo sono state gestite e controllate da multinazionali straniere, spesso con benefici minimi per la popolazione locale.

Sotto la guida di Traoré, lo Stato ha iniziato a rivedere i contratti con le compagnie minerarie, imponendo nuove condizioni, aumentando le quote pubbliche e, in alcuni casi, procedendo a vere e proprie nazionalizzazioni. L’obiettivo dichiarato è semplice: trattenere sul territorio il valore prodotto e reinvestirlo in infrastrutture, sanità, istruzione e sicurezza alimentare.

In parallelo, il Burkina Faso ha avviato un processo di distacco dalle istituzioni finanziarie internazionali come il FMI e la Banca Mondiale, considerate strumenti di controllo politico ed economico delle ex potenze coloniali. Questo processo include anche la messa in discussione del franco CFA, valuta ancora legata al Tesoro francese, e il tentativo di creare sistemi monetari e bancari alternativi, in cooperazione con altri Paesi della regione come Mali e Niger.

Questa strategia, spesso giudicata utopica da osservatori occidentali, mira invece a costruire un modello di sviluppo basato su risorse interne e sulla cooperazione Sud-Sud. Rifiutando i prestiti condizionati delle grandi istituzioni, il Burkina Faso punta ad affrancarsi da un ciclo di debito cronico e da politiche di austerità che hanno soffocato la crescita in passato.

Nonostante il contesto di insicurezza e le sfide strutturali, vi sono segnali positivi. Alcune stime interne mostrano un lieve aumento della produzione agricola locale, grazie a nuovi programmi di irrigazione finanziati con fondi statali provenienti proprio dalle miniere. Il rafforzamento della Banca Nazionale e la promozione di valute locali nelle transazioni commerciali interne stanno inoltre aumentando la circolazione monetaria nazionale, riducendo la dipendenza dall’estero.

Il Burkina Faso sta anche rafforzando la cooperazione regionale con i Paesi del Sahel in un’ottica di blocco economico solidale, condividendo progetti di infrastrutture e difesa energetica. L’idea è costruire un’alternativa africana, resiliente e scollegata dalla logica dei “mercati globali” dominati da interessi esterni.

È chiaro che il percorso tracciato da Ibrahim Traoré non è esente da critiche. Alcuni osservatori parlano di rischio d’isolamento economico e di perdita di accesso a capitali e tecnologie. Altri denunciano il carattere autoritario del suo governo e la limitazione del dibattito democratico. Tuttavia, per una parte crescente della popolazione burkinabé e dei Paesi vicini, questo progetto rappresenta un’occasione di riscatto storico.

Il Burkina Faso di Traoré non cerca solo la sopravvivenza: ambisce a un nuovo paradigma. Non più un’economia “assistita” da prestiti stranieri, ma un sistema basato sull’autodeterminazione, la valorizzazione delle risorse locali e il rifiuto delle dipendenze strutturali. In un mondo in trasformazione, il piccolo Paese del Sahel potrebbe diventare un laboratorio di sovranità economica in grado di ispirare altri popoli africani.

La strada della nazionalizzazione e del disimpegno dai circuiti finanziari internazionali non è facile, ma è una scelta politica forte che punta a rimettere il destino del Burkina Faso nelle mani dei suoi cittadini. Traoré sta giocando una partita ad alto rischio, ma anche ad alto potenziale. Se avrà successo, potrebbe segnare una nuova epoca per il Sahel — e forse per l’intera Africa.

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