di Alessandro Capparucci

La vasta storiografia anti-fascista è sempre stata abilissima nel suo mestiere: indurci ad obliare certe pagine, certi capitoli di storia che potrebbero farci analizzare, in maniera sicuramente più obiettiva, il nostro passato, il nostro presente, nonché il nostro futuro. Demonizzazioni, inquisiti e inquisitori, condanne, ostracismi sono il frutto infame di cotanta (ingiustificata) acrimonia anti-fascista nei confronti della camicia nera, la quale sognava anch’essa una rivoluzione in senso sociale, in senso squisitamente proletario.

Eppure, occorre ammetterlo, uomini come Gramsci– che arrivò a definire il fascismo un “movimento sociale”- e Togliatti -che definì il fascismo un “movimento di massa reazionario”, e che fu artefice, assieme agli altri gerarchi piccisti, dell’”Appello ai fratelli in camicia nera”- compresero l’essenza sociale del movimento mussoliniano, arrivando a mostrare, come nel caso del “Migliore”, vivo interesse nei riguardi della gioventù littoria. Non fu l’unico: uomini come Pajetta e Berlinguer non erano neppure lontanamente indifferenti alla “fascinazione” fascista. Di fatti, il primo era in strettissimo contatto colla rivista ruinasiana “Il Pensiero Nazionale”; l’altro, invece, aveva come braccio destro nientepopodimeno che Lando dell’Amico, ideologo della prefata rivista comunfascista e giovanissimo combattente erresseista ai tempi della contesissima Anzio targata 1944. Poco male, Berlinguer! Non finisce qui, perché anche il “Padre rosso” Togliatti vuole aggiungere alla sua bandiera rossa un po’ di nero, e lo fa in un’intervista rilasciata nel 1947 al noto quotidiano “La Repubblica d’Italia”: ”Non nascondiamo le nostre simpatie per quegli ex fascisti, giovani o adulti, che sotto il passato regime appartenevano a quella corrente in cui si sentiva l’ansia per la scoperta di nuovi orizzonti sociali… Noi riconosciamo agli ex fascisti di sinistra il diritto di unirsi e di esprimersi liberamente conservando la propria autonomia”.

Insomma, tanto mussolinismo nell’italico mondo rosso. Finita qui? Vi piacerebbe! I documenti del Partito Comunista Italiano parlano chiaro: 34.000 fascisti hanno abiurato alle loro idee fasciste per approdare alla filosofia della Prassi. E non parliamo di sconosciute camicie nere; bensì parliamo di filosofi come Ugo Spirito (teorico della “corporazione proprietaria”- che fungerà da fondamento teorico per la bombacciana e mocchiana “socializzazione” ai tempi del mussoliniano romitorio gardesano- e assoluto protagonista del convegno ferrarese del ‘33), e giovani e intellettuali del calibro di Vasco Pratolini, Ottone Rosai, Felice Chilanti (propugnatore di un comunismo “tricolore” di matrice spiritiana), Spartaco Cilento, Fidia Gambetti, Romano Bilenchi, Giampaolo Testa, Giorgio Napolitano, Pietro Ingrao et cetera. Neppure Luca Pavolini, nipote del focace, pugnace Lian Piao salodino Alessandro, scampò alla fascinazione comunista. Finanche Giuseppe Landi, vecchio sindacalista littorio, fondatore del sindacato missino CISNAL nell’urbe partenopea nel ‘50, suggerirà ai sindacalisti mussoliniani di confluire nel PCI. Come dimenticare, poi, l’intervista del gennaio ‘95 di Rauti con Michele Brambilla? Il veterano del missinismo di sinistra, non proprio amato da certe frange repubblichine, affermò che i missini, su invito dell’anti-fascistissimo Berlinguer, quando ancora ricopriva il ruolo di segretario della FGCI, si recavano sovente presso le sedi del PCI per dibattere coi loro rivali comunisti.

E la Confederazione rossa? Giuseppe di Vittorio, tribuno cerignolese di una certa stoffa, certe interlocuzioni con vecchi compagni sindacalisti convertitisi al mussolinismo non li disdegnava affatto, anzi. Fu proprio nel novembre del 1945, a pochi mesi di distanza dalla conclusione della guerra, che il Nostro s’incontrò con Amilcare de Ambris, sindacalista fascista e fratello minore del preclarissimo Alceste, esule anti-fascista morto in terra d’Oltralpe. Semplice incontro tra amici di lungo corso? Non diremmo, dato che si preparava il terreno per una collaborazione tra sindacalisti neri e sindacalisti rossi, quest’ultimi desiderosi di far passare armi, bagagli ed esperienze dei primi alla CGIL (e in parte riuscirono nell’intento, giacché vi furono fascisti che passarono alla CGIL, senza però mai ricoprire incarichi rilevanti all’interno del sindacato medesimo).

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